La recensione de 'Il Professionista', il secondo romanzo che John Grisham dedica all'amato football (americano)...
La forza dei grandi romanzi americani è spesso la trama, intesa più come storia di personaggi che come intreccio: vale per la letteratura di ricerca come per i best seller costruiti a tavolino con pochi ingredienti ben dosati. Della seconda categoria si occupa con successo John Grisham, del quale dopo 'L'allenatore' abbiamo letto l'altro suo romanzo con il football sullo sfondo, 'Il Professionista' (Mondadori, 2007). In inglese un chiarissimo 'Playing for pizza', tanto per sottolineare l'ambientazione.
Il protagonista è Rick Dockery, ventinovenne quarterback reduce da una commozione cerebrale ma soprattutto da tre disastrosi intercetti subiti in una partita decisiva, guidando l'attacco dei Cleveland Browns contro i Denver Broncos. Non in una partita qualsiasi, ma nella finale AFC, anticamera del Super Bowl: con lui in campo al posto del titolare infortunato i Browns si fanno rimontare 17 punti e perdono il treno della vita. Dockery viene soprannominato da Charles Cray, opinionista principe di Cleveland, 'il più grande cane di tutti i tempi', ma all'università era stato una stella prima di perdersi nell'anonimato ben pagato della NFL. Senza più mercato negli USA e linciato dai media, Dockery accetta una modesta (24mila euro) offerta dei Panthers Parma (esistono davvero così come i Lions di Bergamo, poi quasi tutti i nomi delle persone sono inventati), squadra della massima serie italiana, ed inizia la scoperta di un paese nuovo.
Da italiani troviamo geniale questa parte del libro, in cui vengono analizzati diversi atteggiamenti della maggioranza di noi: l'ossessione per la cucina e per i vini, non solo in concreto ma anche come oggetto di conversazione, il provincialismo orgoglioso (''Il nostro formaggio è il migliore d'Europa'' e cose del genere), le forze dell'ordine viste come strumento di potere che come tutori della legalità, la lagna sulle 'eccellenze' (l'opera, il prosciutto, l'arte, eccetera), la distinzione al limite della schizofrenia fra lavoro e passioni.
Dopo il primo approccio con la città, omaggiato da tutti, Dockery comincia a svolgere il suo lavoro in una realtà che con la NFL ha in comune solo le regole del gioco ma dove tutti prendono la loro attività sul serio: non c'è schema di gioco o episodio storico della NFL che i ragazzi italiani non conoscano, dilettanti che danno lezioni di professionismo nel senso più alto del termine. Nel senso più venale, invece, i professionisti della squadra sono solo i tre (in seguito lo diventerà anche un wide receiver italiano, Fabrizio) americani e l'allenatore, Sam Russo, americano anche lui e nella vita guida turistica.
Il tempo libero è tanto, troppo, e Dockery lo occupa rimuginando su quello che poteva essere e non è stato o fantasticando su storie con donne locali: dalla moglie del presidente alla cantante lirica. Ad un certo punto il suo agente gli prospetta l'opportunità di tornare vicino a casa, o in Canada o nell'Arena Football, ma il quarterback un po' per il rispetto della parola data e un po' perchè avvolto da questo mondo nuovo rifiuta: solo più tardi capirà che il vero regalo che Parma gli ha fatto è stato restituirgli la passione per il football, e attraverso questa la passione in generale per la vita.
In mezzo a episodi forti, come quello del viaggio lampo a Cleveland solo per dare un pugno allo strafottente Cray, e a vicende da ordinario giocatore (la nottata nei locali milanesi, i favori chiesti all'amico giudice), Dockery vive al tempo stesso da vicino e da lontano il dramma dei suoi due compagni connazionali Turner e Colby (neri, lui è bianco: una qualità di Grisham è sempre stata quella di raccontare la tensione razziale senza pistolotti) che si infortunano: piccoli professionisti in un professionismo minore, con tanta rabbia inespressa ed inesprimibile. Ma soprattutto conosce Livvy, universitaria americana in trasferta-studio, che permette all'autore una sottile presa in gira del viaggiatore acculturato, prima ancora che colto: più informato dello stereotipo dell'americano visto dall'Europa, ma pervaso da un'ottusità che lo fa concentrare sul particolare perdendo di vista tutto il resto.
Non sveliamo il finale, comunque poco importante nell'economia dell'opera. Che è l'opposto dell'altra di Grisham con il football sullo sfondo: nell'Allenatore i temi e la storia erano fortissimi, semplici e commoventi, mentre in questo la trama è quasi un impiccio fra una notazione di costume e l'altra. Davvero buona la traduzione dei termini sportivi e dello sviluppo di certe giocate, che in italiano non è uno scherzo, ma rimane la sensazione che Grisham abbia preso le distanze da tanti luoghi comuni proprio usando altri luoghi comuni. Ottimo per le vacanze, ma non il suo capolavoro: per chi ama il football però imperdibile. E lo stadio Lanfranchi è proprio quello vero.
Stefano Olivari
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