D’accordo, ci hanno militato il nazionale danese Stig Tøfting, la meteora Marc Nygaard (in Italia con Brescia, Catania e Vicenza), il nazionale ghanese – presente in Sudafrica – David Addy e la punta senegalese Baye Djibi Fall, capocannoniere 2010 in Norvegia con lo Stabæk. Ma quando sei stato etichettato come il nuovo Pelè americano, allenarti a 21 anni nello Jutland con il Randers non è propriamente definibile con il concetto di carriera in ascesa.
Fin dai suoi primi passi nel mondo del calcio, Freddy Adu ha dovuto convivere con la maledizione di un paragone impossibile, quello con uno dei più grandi calciatori della storia. Un’operazione di marketing abilmente orchestrata dalla Nike che ha permesso al ragazzo di raggiungere un’immediata fama mondiale capace di prescindere in maniera totale dalle prestazioni offerte sul campo.
Con Adu si è creato il personaggio senza preoccuparsi del ragazzo. Tipico di un certo modo di intendere il business. Ma quando gli enfant prodige smettono di essere enfant, i nodi vengono al pettine. E il povero Adu, che purtroppo per lui non è Lionel Messi, è finito ad allenarsi con un club danese di metà classifica, la cui dirigenza si è già premurata di annunciare che alla ex starlet del calcio Usa – già sull’orlo della depressione la scorsa estate dopo la mancata inclusione nei convocati della selezione USA per i Mondiali sudafricani - non sarà offerto alcun contratto. In Danimarca dunque solo per mantenere un minimo di forma, cercando di ricostruirsi una carriera che, spogliata da tutto l’hype prodotto da sponsor e media, non è mai decollata realmente.
Due anni fa Adu percorreva il ponte 25 de Abril a Lisbona a bordo di una Mercedes e salutava la gente dietro alle lenti di occhiali griffati D&G. Era il momento del suo sbarco in Europa, al Benfica. Il suo
prime time, commentava entusiasticamente ESPN. Oggi non vale nemmeno una replica notturna su una emittente locale.
Alec Cordolcini