Caro Arrigo, in questa lettera aperta uso il “tu” che uso da anni, da quando allenavi il Parma che eliminò il Milan dalla Coppa Italia. Da quando, per essere più precisi, con Gigi Garanzini e Silvio Smersy fui quasi testimone oculare della tua firma sul contratto col Milan. Dico quasi perché il povero Silvio aveva avuto la soffiata giusta (un ristorante fuori Parma) e lì ci eravamo appostati. Abbiamo visto arrivare con l’aria dei congiurati Galliani e Braida, prontamente sistemati in una saletta separata, poi sei arrivato tu, stessa direzione. Non ci voleva molto a fare due più due. Galliani e Braida se ne andarono rasentando i muri, tu accettasti di fermarti «dieci minuti, non di più, giusto per parlare di calcio ma non del Milan, del calcio in generale ». I dieci minuti diventarono un’ora abbondante e ne uscii con una buona impressione. Già m’aveva impressionato il Parma, in verità. Aperto, senza paura. Aperto anche tu, senza diffidenze, giustamente ansioso di far conoscere le tue idee.La lettera aperta nasce da due reazioni contrastanti (mie) a una nomina (tua). Ai tempi, ho rispettato la tua decisione di chiamarti fuori: solo chi è nella fornace sa che temperatura c’è. Sei diventato opinionista della vecchia Gazza, già lo eri per le reti Mediaset e questo va bene, sei portatore di valori sani, giusto un paio di scheletrini nell’armadio (Bergamo e Marsiglia) a sottolineare che nessuno è perfetto. Parli di cultura della sconfitta, di umiltà, di lavoro, di sacrificio, e questo mi va benissimo, da dentro quel mondo dorato non siete in tanti a farlo. Tu lo fai perché da oltre vent’anni hai saltato, come Nino Castelnuovo, la staccionata del “ma chi è questo Sacchi e cos’ha vinto finora?”e se dici certe cose, con quello che hai vinto, ti stanno a sentire. Le diresti ugualmente, ne sono certo, anche se non fossi uscito dai derby col Sant’Alberto e l’Alfonsine, se fossi rimasto un Signor Nessuno per il grande calcio. Le diresti per coerenza, per spessore culturale. Non ho dimenticato gli incontri, a Fusignano, con quella bella persona che era il professor Belletti, tuo ideologo calcistico (il Brasile del ’70, viva Mazzola e abbasso il dannunziano Rivera, il genio di Suarez, la zona) più che politico (Belletti era più rosso d’un cocomero). Fu lui a inquadrarti come giocatore: «Era destro, ma giocava terzino sinistro. Sapeva dare tutto quello che aveva dentro, ma non sempre bastava. Era un ragazzo chiuso, non sapeva parlare in dialetto». Fu lui a dirmi: «Voi giornalisti, smettetela di chiamarlo il profeta di Fusignano, il ragioniere di Fusignano. Non è nemmeno ragioniere, ha smesso pochi mesi prima dell’esame». Pausa e aggiunta: «D’altra parte nemmeno io sono laureato, e nemmeno Benedetto Croce lo era».Le reazioni contrastanti, ci arrivo. Sembra che stia divagando, ma vedrai che alla fine, come dicono i francesi, tout se tient. Tu, Arrigo, sei stato nominato coordinatore tecnico delle Nazionali azzurre, dall’Under 16 a quella di Prandelli. Roberto Baggio baderà al Settore tecnico di Coverciano e Gianni Rivera al calcio nelle scuole. A parte una certezza (la Figc s’è mossa con vent’anni di ritardo), le mie reazioni sono state queste. Prima reazione: che c’entra Sacchi con Rivera e Baggino? Seconda reazione: 4-4-2 da qui all’eternità. Ce ne sarebbe una terza: non fosse che per motivi anagrafici, avrei messo Rivera a Coverciano e Baggino più a contatto con le scolaresche. E una quarta: ecco tre belle foglie di fico. Ma stiamo alle prime due. In epoche diverse e riuniti dal numero magico, il 10, Rivera e Baggio rappresentano il vertice della tecnica individuale al servizio della squadra, e questo andrebbe bene anche a te, lo so, ma rappresentano pure il ruolo che tu e i tuoi non sempre ispirati seguaci vedevate come il fumo negli occhi: il trequartista, quello che si muove tra due linee e decide lui (non gli schemi, o non sempre) dove andare, chi servire. Quello, aggiungo, per cui sempre si è pagato volentieri il biglietto, in attesa di un dribbling, di un colpo d’ala, di una perla inattesa, di un refolo di fantasia.Per anni il 10, come il panda, ha rischiato l’estinzione. Il numero 10 s’è svalutato, in Italia l’hanno avuto sulla schiena perfino i portieri. Il 10 è stato messo di fronte a una scelta drastica: o avanzare come punta esterna, facendo coppia con un perticone, o arretrare nella tonnara di centrocampo, garantendo la corsa di un mediano, o quasi. In questo mutamento, assai doloroso per me e quelli che si riconoscono in una definizione di Eduardo Galeano, “mendicanti di bellezza”, non ti ritengo totalmente responsabile, ma parzialmente sì. È vero che il tuo Milan migliore in fase d’attacco proponeva Donadoni come terza punta, ma in fase difensiva il 4-4-2 era come disegnato sul campo, manco i giocatori fossero attraversati dalle sbarrette del calciobalilla. È anche vero, e lo sai bene, che nel calcio ci sono le mode, e le mode hanno deciso che tre numeri non bastano più come formuletta riassuntiva. Ce ne vogliono quattro: 4-3-1-2 o 4-2-3- 1, o 4-3-2-1, detta anche albero di Natale, o 4-4-1-1. Insomma, il 4-4-2 non sta attraversando un momento di grande spolvero. In più (te ne sarai sicuramente accorto, pur nell’esercizio di diplomazia che il ruolo di critico comporta), molto spesso si gioca da cani e già si saluta come un messia un ragazzo capace di crossare senza ferire i fotografi o i piccioni, o di fare un dribbling stretto.Una volta, ma sapevo già la risposta, ti ho fatto il giochino dell’escluso. Chi avresti voluto nella tua squadra tra Pelé e Di Stefano? E tra Suarez e Sivori? E tra Falcão e Platini? E tu elencasti: Di Stefano, Suarez, Falcao. «I più altruisti, quelli che servono di più allo spirito di squadra». Lo spirito di squadra era anche in cima ai requisiti di partenza. «Poi servono giocatori universali, poi la velocità e il pressing». A me, confesso, la parola “universali” fa un po’ ridere e comunque fa parte di un nuovo vocabolario in cui, tanto per cambiare, c’è il tuo zampino: il terzino che sale anziché scendere, la ripartenza, l’intensità, l’aggressione dello spazio. Non sto a fare una questione di lessico, meglio prima o adesso. Guardiamo piuttosto alla sostanza.Arrigo, il compito più difficile è il tuo. Con tanti auguri a Baggino e Rivera, è poi dall’esito delle Nazionali che molta gente giudica, e nemmeno tu hai la bacchetta magica. «C’è bisogno di fantasia» hai detto di recente, dopo un turno in cui solo l’Inter (e come: 4-3 al Tottenham in dieci) aveva vinto in Europa. Ripetilo ancora. La parola fantasia non ha mai fatto parte dei tuoi discorsi. Garantisci che non ti è scappata per sbaglio. Prometti che chi fa due dribbling di fila non sarà automaticamente emarginato. Chiedi un po’ di tecnica in più, perché il pressing ormai lo fanno anche le Lofoten. Certo che bisogna correre, ma c’è un limite anche alla velocità. Certo che i calciatori devono essere atleti, ma è indispensabile far mettere su tre o quattro chili di muscoli a un ragazzo cui natura ha dato leggerezza? «Nessun giocatore, per quanto grande sia, può sostituirsi al gioco. È il gioco che fa il giocatore». Questa è una tua vecchia idea e la rispetto (anche perché ho visto giocare il tuo Milan). La mia è che un giocatore di fantasia possa illuminare il gioco, quando il gioco manca, o impreziosirlo quando il gioco c’è. Credimi, Arrigo: la gente ha voglia di trequartisti e di ali vere, il resto si rimedia sempre anche se in difesa siamo messi male. Sinceri auguri di buon lavoro e saluti fantasiosi.
di Gianni Mura