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L'ultimo RE

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"Non è di questo mondo. Si, Maradona è così:esiste per la gloria di Dio" Osvaldo Soriano
Roma, piazza San Pietro, 16 ottobre 1978. «Se sbaglio, mi corrigerete» disse con il sorriso sulle labbra l’appena eletto papa Karol Wojtyla. Napoli, stadio San Paolo, 5 luglio 1984. «Buonasera, napolitani» esclamò, microfono in mano (destra) e palla appiccicata al piede (sinistro) Diego Maradona il giorno della sua presentazione al popolo partenopeo. Due refusi orali, “corrigerete” e “napolitani”, per due delle più grandi personalità del XX secolo, e non paia blasfemo il paragone. Giovanni Paolo II e il Pibe de oro. Uno, primo papa polacco della storia, avrebbe contribuito di lì a poco a dare una spallata alla cortina di ferro facendo crollare il comunismo. L’altro, primo capitano a trascinare il Napoli allo scudetto, avrebbe lasciato un’impronta indelebile nella storia del calcio: napoletano, italiano, argentino e mondiale. Aveva esordito a 15 anni, 11 mesi e 20 giorni, Diego Armando Maradona. Era il 20 ottobre 1976, da allora il mondo del calcio non sarebbe stato più lo stesso. All’epoca in Italia lo scudetto stava sul cuore della maglia del Torino, Marcello Lippi era il capitano di una Samp che si salvava sempre o quasi all’ultima giornata, non esistevano telefonini e Luciano Moggi era il direttore sportivo della Roma e la triade, al massimo, la faceva con il presidente Gaetano Anzalone e con il segretario Carlo Mupo. In Argentina aveva preso il potere da poco più di sei mesi una delle dittature più sanguinarie della storia. Ma a Buenos Aires allora neppure si immaginava il dramma dei trentamila desaparecidos. Il “pueblo” pensava agli imminenti Mondiali che l’Argentina avrebbe organizzato e vinto di lì a un paio d’anni. E si coccolava colui che sarebbe diventato il più grande giocatore nella storia del calcio. ECCO DIEGUITO Lunghi capelli ricci, occhi vispi, maglia rossa con banda trasversale bianca, numero 16 ben visibile anche sui calzoncini: così si presentava, più di trent’anni fa, il piccolo Diego, stellina dell’Argentinos Juniors pronto a entrare nella storia. Nella storia non sarebbe entrato né quel giorno né mai Ruben Anibal Giacobetti, che in quella partita di campionato contro il Talleres di Cordoba sarebbe uscito alla fine del primo tempo per far spazio all’emergente Dieguito. L’Argentinos Juniors stava già perdendo in casa per 0-1 e neppure l’ingresso del piccolo Maradona sarebbe servito a cambiare il risultato. Prese 4 Giacobetti nelle pagelle del prestigioso settimanale sportivo El Grafico. Un bel 7 invece per il numero 16, Maradona, sfacciato al punto da fare subito un tunnel al suo marcatore Juan Domingo Cabrera. Il giornalista Hector Vega Onesime appioppò nel suo articolo tre aggettivi all’esordiente Diego che non hanno bisogno di grandi traduzioni: “Sorprendente, habilidoso e inteligente”. Maradona in realtà era già allora un Pibe de Oro: a dispetto della giovanissima età, giornali e tv si erano già occupati di lui che negli intervalli delle partite casalinghe dell’Argentinos intratteneva i tifosi con numeri da foca e palleggi da applausi. Nel settembre ’71 (a 11 anni ancora da compiere) il Clarin, il quotidiano più venduto d’Argentina, gli aveva dedicato un articoletto, il primo di una raccolta che sarebbe diventata grande come l’Enciclopedia Britannica: ma nel titolo, per una beffa del destino, un refuso trasformò Maradona in Caradona. Anche la tv, dicevamo, si era occupata di lui. “Sabados Circulares”, un rotocalco dell’Atc, la televisione di Stato, aveva realizzato un servizio che ritraeva l’undicenne Dieguito palleggiare davanti alla sua umile casa di Villa Fiorito. Al microfono del conduttore del programma, Pipo Mancera, una sorta di Pippo Baudo d’Argentina, quel bimbetto avrebbe rilasciato dichiarazioni incredibilmente premonitrici: “Il mio sogno è giocare un Mondiale e vincerlo.” Il sogno di giocare un Mondiale lo avrebbe realizzato undici anni dopo, in Spagna. Il sogno di vincerlo dovette rimandarlo al 1986, a quasi dieci anni dal suo esordio nella Serie A Argentina. PALLONE D’ORO Da quel 20 ottobre 1976 al 25 ottobre 1997, data dell’ultima partita ufficiale (con la maglia dell’amato Boca Juniors in un “superclasico” contro il River Plate vinto 2-1), Diego Maradona ha vinto di tutto e di più: un Mondiale dei grandi nel 1986 e uno dei giovani nel 1979, tre scudetti (uno con il Boca, due con il Napoli), una Coppa Uefa, due coppe e due supercoppe nazionali (doppietta con il Barcellona e con il Napoli), sei volte la classifica cannonieri (cinque in Argentina e una in Italia). In casa ha pure un Pallone d’oro di France Football alla carriera, consegnatogli nel ’95 perché ai suoi tempi un extraeuropeo non poteva vincerlo (il primo a rompere il tabù fu proprio nel ’95 George Weah; Di Stefano e Sivori lo vinsero come oriundi rispettivamente di Spagna e Italia). Unico cruccio di una carriera straordinaria e irripetibile per qualità di gioco più che per quantità di titoli, la Coppa dei Campioni. Quella sudamericana, la Libertadores, Dieguito non l’ha mai neppure giocata; quella europea, che da un po’ chiamiamo Champions League, lo vide fuori al primo turno con il Napoli contro un Real Madrid non ancora galattico ma già forte dei Butragueño, Michel e Martin Vazquez. I sette anni a Napoli Maradona li ha vissuti da Re, con la maiuscola. Un Re amato alla follia dai suoi sudditi, un Re incontrastato e ancor oggi rimpianto a quasi ventisei anni dal suo arrivo da Barcellona. Ha curiosamente aperto e chiuso segnando la sua lunga parentesi regnante italiana: dal 22 agosto ’84 (gol al San Paolo contro l’Arezzo nel 4-1 di Coppa Italia) al 24 marzo ’91 (rigore nella sconfitta per 4-1 a Marassi contro la Sampdoria). In mezzo, prodezze da tramandare ai posteri. Il meglio del meglio: il gol da centrocampo contro il Verona al San Paolo nel 1985-86 e la punizione balisticamente impossibile infilata nel sette a Tacconi in Juve-Napoli 2-1 sempre del 1985-86. NOTTI MAGICHE Sette anni di gioie, magie, liti e discussioni. Solo tre allenatori: relazione di rispetto con Rino Marchesi, pessima con Ottavio Bianchi e poco meno che discreta con Albertino Bigon. Eufemisticamente tempestoso il legame con l’unico presidente napoletano, Corrado Ferlaino. Ma straordinario il rapporto con tutti, diconsi tutti, i compagni di squadra. Da Bagni a Puzone, da Giordano a Volpecina, da Careca a Rizzardi. Non sarà stato un professionista esemplare, in allenamento (quando ci andava…), ma da nessun compagno si sono mai sentite parole negative sul conto di Diego. Uno che combatteva le sue lotte sindacali, portava avanti le rivendicazioni economiche prima per la squadra che per sé. Uno che infiammava Napoli, con le sue lotte contro gli squadroni potenti del Nord. Quegli squadroni (Juve, Inter e Milan) che, con lui in Italia, vinsero soltanto tre scudetti su sette. Certo, l’eco della sua battaglia sudista trovò poi ripercussione e vendetta, tremenda vendetta, al Mondiale di Italia ’90: fischi all’inno argentino già dalla gara inaugurale a San Siro contro il Camerun, poi bis a Torino (contro il Brasile), quindi tris a Firenze (contro la Jugoslavia) per arrivare alla notte dello strappo definitivo con il pubblico italiano, la notte dell’Olimpico, la notte di quell’epiteto, “hijos de puta”, urlato con rabbia alle telecamere di tutto il mondo l’8 luglio del 1990, al culmine delle notti magiche targate Bennato&Giannini. BOSS E COCAINA Un Re spesso capriccioso, Dieguito, ma dal cuore grande così. Capace di incorrere in incidenti di percorso, come quelle frequentazioni pericolose con la famiglia Giuliano, i fratelli Carmine e Salvatore, boss incontrastati del quartiere Forcella. Ma sempre presente per fare del bene, per dare soldi in beneficenza dietro l’assoluta consegna del silenzio. Un Re spesso circondato da corti non sempre irreprensibili. Tre, come gli allenatori, i procuratori nella sua esperienza napoletana. Jorge Cyterszpiler, il primo a credere in lui: l’uomo, anzi, il ragazzo che cominciò a seguirlo ancora adolescente, l’artefice dei trasferimenti dall’Argentinos Juniors al Boca, poi al Barcellona, quindi al Napoli. Guillermo Coppola, il controverso ex banchiere che ne seguì gli interessi dall’86, ma che lo trascinò definitivamente nel vortice della droga. Marcos Franchi, ex collaboratore di Coppola, che lo guidò nella stagione peggiore, 1990-91, quella del precipitoso addio all’Italia causa doping di fine aprile ’91 e del successivo e clamoroso arresto per detenzione e spaccio di cocaina a Buenos Aires qualche settimana dopo. Dei tre, colui che più ha voluto bene a Diego è stato Jorge Cyterszpiler. Che, non a caso, è ancora l’unico dei tre che lavora nel calcio curando, tra gli altri, gli interessi di Julio Cruz e Martin Demichelis e facendo da intermediario per vari trasferimenti dall’Argentina all’Europa. DIEGO JUNIOR A Re Diego la città di Napoli ha anche perdonato tante cose. Quella che fece più clamore mediaticamente accadde proprio all’inizio della stagione del primo scudetto quando, il 20 settembre 1986, alla vigilia di Napoli-Udinese, Cristiana Sinagra, una giovane ragazza napoletana, denunciò che il bebè appena partorito era nientemeno che figlio del grande Diego Armando. Diego Armando Junior Maradona, nomi e cognome che non sono stati una garanzia, calcisticamente parlando, ma che incrinarono appena lo splendido feeling tra il campione e la città. Un Re senza eredi, alla faccia del dna. Un Re che crede nell’amicizia tanto da averla coltivata e mantenuta con molti dei suoi compagni, del Napoli come della Seleccion. Al punto da inserirne alcuni nella (lunga) lista dei ringraziamenti in calce alla sua autobiografia “Yo soy el Diego de la gente”. Tra questi, Salvatore Bagni, Ciro Ferrara e Claudio Paul Caniggia. Un Re blandito e riverito anche dai potenti del mondo, dai vari presidenti della Repubblica d’Argentina (da Raul Alfonsin e Carlos Menem) e dal grande amico cubano Fidel Castro. Un Re, però, anche con tanti nemici, e tutto sommato tanto onore: da Daniel Passarella a Pelè in ambito calcistico, da Havelange a Matarrese in ambito politico-sportivo. Un Re spaccone che sconvolgendo il rigido protocollo vaticano riuscì persino, a causa delle sue bizze, a fare aspettare più di un’ora Papa Giovanni Paolo II, il Karol Wojtyla del “mi corrigerete”, che aveva concesso al campione argentino e alla sua famiglia udienza privata il 7 novembre del 1985. COPPA DEL MONDO Un Re che ha deciso da un annetto a questa parte di rimettere in gioco la sua corona, ma solo per l’Argentina; a Napoli, succeda quel che succeda al Mondiale, nessuno mai sarà pronto a prenderne l’eredità al trono. Il Diego allenatore non sarà mai all’altezza del Diego calciatore. Neppure nel caso che la sua Seleccion avesse alzato lo scorso 11 luglio la Coppa del mondo al cielo di Johannesburg. Tratto da GS Aprile 2010                                                                                                                                                         di Matteo Dotto