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Il mondo di Simoncelli

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Ecco come muore un motociclista. In diretta tivù, travolto e calpestato, col 35 percento di share. L'autopsia ha ribadito l'evidenza manifesta: traumi fatali a torace, collo e cranio. Se non altro la gara è stata annullata: un anno fa, a Misano, Shoya Tomizawa non ebbe analogo trattamento. La scomparsa di Marco Simoncelli è stata una sorpresa attesa. L'ossimoro, tipico di ogni atleta aduso al rischio, è qui acuito dal personaggio. Stile, carattere e conformazione fisica (troppo alto per la MotoGP) lo avevano trasformato nel Grande Spericolato. Il suo idolo era Kevin Schwantz, genio sciagurato e amatissimo. Anche "Sic" era abituato a mixare coraggio e istinto. Jorge Lorenzo lo aveva definito un pericolo pubblico e Dani Pedrosa si era giocato il titolo perché in uno scontro con Sic ci aveva rimesso la spalla. In sala stampa, che gli voleva bene perché non potevi fare altrimenti, qualcuno lo chiamava affettuosamente "Zappatore" o "Spanocchiatore": Marco un po' se la prendeva e molto lasciava stare. Consapevole di non poter essere un mostro di eleganza. Al tempo stesso, la sua morte ha i connotati della brutalità incomprensibile. Al netto di ogni retorica, Simoncelli era come sembrava: buffo, schietto, pulito. Bamboccione fragile e "patacca" adorabile. Era bello parlarci, a volte litigarci. Il più accessibile degli eroi masochisti. E il più apparentemente invincibile, in virtù di quella vitalissima propensione al martirio didascalico. Il paddock del Motomondiale è uno strano microcosmo. Una famiglia allargata dove i divi sono ancora raggiungibili e gli uffici stampa non fanno danni. Tutti si conoscono, tutti si frequentano. Soltanto da dentro si può comprendere quell'atteggiamento di fatale accettazione della morte. Una volta Marco Pantani disse: "Perché scatto in salita? Per abbreviare l'agonia". Per i piloti è lo stesso: accelerano per seminare la morte. Inchiodati come siamo tra il banale "fa parte del gioco" e il commosso "perché proprio lui?", è lecito chiedersi se la morte del 24enne Simoncelli poteva essere evitata. L'ambiente ha elevato oltremodo il concetto di sicurezza. Trent'anni fa i decessi erano innumerevoli e adesso rarissimi (ma neanche tanto: due in un anno). La dittatura dell'elettronica - e non solo - ha consentito il raggiungimento di una protezione impensabile. Di pari passo, a conferma della follia legalizzata dell'ambiente, c'è chi imputa all'elettronica un grado minore di spettacolarità. Moto più "facili". Meno sorpassi, meno derapate. Ma la sciarada mortale rimane. La stampa italiana, noiosamente rossocentrica, parlò di "miracolo" quando Valentino tornò in pista dopo poche settimane dalla frattura di tibia e perone al Mugello 2010. Era la norma: per il centauro è consuetudine correre con femori malmessi, spalle disgregate e falangi mancanti. Quando morì Tomizawa, in sala stampa i mammasantissima esortavano a farla poco lunga: niente moralismi. L'esatto approccio dell'organizzatrice spagnola Dorna, Spectre delle due ruote, che neanche un mese fa ha imposto a tutti di gareggiare a due passi da Fukushima. La MotoGp non ha nulla di razionale e convive con verità non dette. Come quella su Daijiro Kato, che nel 2003 si sfracellò a Suzuka per fatalità (versione ufficiale) o perché la Honda si bloccò sull'acceleratore (accadde anche ad Ayrton Senna, tradito dal piantone dello sterzo della Williams). Legge del paddock vuole che ogni morte sia evitabile, tranne quella per investimento: quella di Shoya e Sic. Simoncelli era già caduto più volte a inizio gara: per la sua ruvidezza ancestrale, per lo stile così distante da Agostini e Rossi. E per quella iattura sottovalutata che sono le gomme fredde: pneumatici supersonici, che permettono traiettorie inaudite ma che hanno bisogno di scaldarsi. Altrimenti disarcionano. Simoncelli è caduto in Malesia quando non poteva, perché a tutta velocità stavano arrivando Colin Edwards (polsi fratturati e spalla lussata) e Valentino. Amico e fratello maggiore. E' saltato il casco (perché?) e il collo è la parte meno protetta: niente salvezza. Forse lo ha tradito anche l'elettronica: invece di andare verso l'esterno, Marco ha cercato l'interno. Non ha lasciato la moto, il traction control è stato portato al "fraintendimento" e la Honda si è gettata a centro pista. Marco Simoncelli è morto e con lui la MotoGp. Di sicuro in Italia. Era l'erede (parola che detestava) di Rossi, altri papabili non ci sono e lo stesso Valentino dovrà convivere con un peso indicibile. E' sceso il sipario più impietoso nel brutto mezzo di una gara inutile. E' morto un ragazzo, bello e incolpevole. Un uomo coi capelli da fumetto che amava il nichilismo impavido di Gilles Villeneuve. E' morto "il Sic" e con lui un mondo non più romantico né spettacolare, ma solo cinicamente gladiatorio. A dispetto delle tante belle persone che lo popolano. Fonte: articolo di Andrea Scanzi, pubblicato sul Fatto Quotidiano