Otto anni fa Marco Pantani lasciava questa terra, come ricordano anche i non appassionati di ciclismo. Al netto dei temini sugli eroi che devono morire giovani, da Alessandro Magno ai giorni nostri, con il campione romagnolo è davvero morta l'innocenza del ciclismo e di chi lo ama(va): pieno di morti tragiche, in gara e non, di doping e di storie sporche fin dalla sua nascita, ma sempre rimasto nell'immaginario popolare (soprattutto italiano) qualcosa di puro ed eterno. Con il lungo addio di Pantani, iniziato nel 1999 a Madonna di Campiglio, è invece proprio cambiato il modo di guardare questo sport. Da attesa dell'impresa, più emozionante dell'impresa stessa, a scetticismo nei confronti di qualsiasi risultato anche da parte degli addetti ai lavori. Da gusto per la sfida ad attesa dei mille gradi di giudizio nazionali ed extranazionali, sportivi ed extrasportivi. Da passione per campioni fortemente caratterizzati ad osservazione post-prandiale di un magma indistinto di grandi atleti che vincono con l'asterisco (tipo Contador) per poi cedere la vittoria ad altri da asteriscare (tipo Scarponi). Siamo contro il santino mediatico che viene fatto di Pantani, capro espiatorio di un sistema che poi ha colpito quasi tutti i grandi senza che questi però si lasciassero morire nella camera di un residence, ma di sicuro nella testa di tutti noi c'è un prima di Pantani e un dopo Pantani. E l'amore, morto, per uno sport così onesto da perseguire la dinonestà anche contro i suoi stessi interessi. Anche sapendo che quasi tutti sono sporchi, come dimostra la serena accettazione di controlli che sarebbero ritenuti inaccettabili (per modalità e atteggiamento degli inquirenti) da un medio calciatore di serie B.
Twitter @StefanoOlivari