Il Milan 2012-13 ha poco più di 22mila abbonati, il dato più basso di tutta l'era
Berlusconi. Partita nel 1986, quindi in epoca pre-pay tivù (dal 1993 i primi posticipi di Telepiù), con San Siro che in certe stagioni (quelle dei duelli con il Napoli di
Maradona, ma anche quelle immediatamente successive) era regolarmente esaurito anche per le partite più insulse con gli abbonati nell'ordine delle 70mila unità. Tutto facilmente spiegabile, anche con l'imborghesimento del tifo che è un fenomeno che riguarda un po' tutti e con la tristezza dei nomi proposti quest'anno da
Galliani (perché per definizione, giornalistica, le grandi intuizioni sono di Berlusconi e gli errori di Galliani o dell'allenatore di turno), senza nemmeno vendere al pubblico rossonero un 'progetto' più o meno credibile. A questo punto non è tanto interessante l'eventualità del ritorno low cost di
Kakà, al quale
Mourinho ha detto in faccia di ritenerlo finito, tre anni fa grandissimo colpo in uscita (con il Real Madrid che deve ancora pagarne l'ultima rata...), quanto l'idea di Milan che Berlusconi ha per il futuro. Non più strumento di affermazione personale, perché negli anni è stato vinto di tutto e di più. Non più strumento di comunicazione, anche in chiave elettorale, di un'immagine vincente: con
Bonera e
Yepes meglio mantenere un profilo basso. Non più un'azienda di famiglia da trasferire in prospettiva ai figli: l'unico dei cinque che se ne è interessato,
Barbara, ha fatto rimpiangere i quattro che ne sono rimasti lontani e non solo perché il valore di mercato di
Pato è passato dai 35 milioni di gennaio (stangata di Galliani al PSG, roba da
Redford-Newman con la finta agenzia ippica del film) agli zero attuali. Persone vicine a Berlusconi giurano che lui valuti il Milan esattamente un miliardo di euro, quindi il problema è che non esiste sul pianeta un ricco così cretino da spendere 200 milioni per avere il 20% di un'azienda sempre in perdita e dove il socio di maggioranza è Berlusconi. La strategia è evidente: alleggerire il monte ingaggi della rosa, in modo da rendere appetibile la squadra per lo sceicco della situazione che si compri tutto o per farsi trovare pronti quando i mitici Real Madrid e Barcellona saranno schiantati dai loro debiti e dal cialtronismo del sistema bancario spagnolo. Senza tracciare scenari fantacalcistici, un anno di pura transizione su cui dovrà mettere la faccia il mai amato (da Berlusconi)
Allegri. La vera domanda è quindi questa: perché bisognerebbe appassionarsi ad un anno di transizione? Saremo anche tifosi, ma la transizione possiamo vederla in televisione.
Twitter @StefanoOlivari