Il Mondiale è una febbre contagiosa, l'espressione più alta di un gioco nel quale si mescolano sogni e passione, con un proprio indissolubile fascino e sfumature che balzano oltre i confini del risultato. E il campionato del mondo in Brasile, il primo nell'era di un calcio molto global, ha senz'altro una seduzione particolare. Unisce le radici della patria che ha reso il futbol una danza, alla rete che connette tutta la terra. Ma la Coppa del mondo è sempre anche altro, soprattutto per chi va in campo a disputare la contesa, e non solo perché è la rappresentazione del desiderio più profondo di ogni sportivo. Il Mondiale, tra le altre cose, è l'irripetibile e straordinaria occasione, per squadre e singoli, di fare o diventare storia. E nel RisiKo verdeoro 2014, in tanti inseguono traguardi cardini per raggiungere una indelebile nobilitate. Dal Brasile alla Spagna, dall'Argentina alla Germania e via le altre, tra possibili vincitrici, outsiders e sicure sorprese, ma alcune, di sicuro, con opportunità di partenza più solide e la consapevolezza che tutto è distante solo sette passi.
Ai padroni di casa in primis, spetta il prologo del capitolo Mondiale. Sovraccarichi di pressioni ed entusiasmi, senza alcun dubbio tra i duellanti più accreditati, con un robusto conto aperto col proprio passato e, non ultima, una finestra non del tutto chiusa sul presente. Trionfare nel Mondiale casalingo rimetterebbe, in parte, sui binari quel treno che nel 1950 è deragliato sotto gli agguati di Schiaffino e Ghiggia. La pagina più triste dei pentacampeones, mai dimenticata e che il destino, a sessantaquattro anni di distanza, ha rimesso tra le mani degli artisti del pallone per consentirgli finalmente di girarla. Senza trascurare l'effetto sociale che avrebbe su un paese comunque contraddittorio che nella sua preparazione si è dovuto confrontare con i fantasmi del Maracanazo e, soprattutto, con dei risvegli disordinati. Tutto attraverso la guida di Felipe Scolari, che potrebbe eguagliare Vittorio Pozzo, con due titoli Mondiali, e i piedi di Neymar, fenomenale in patria, più normale in Spagna e sempre con l’etichetta di erede di Pelè sul colletto.
Parlare di brasiliani e di calcio, impone, senza troppi sforzi, la citazione di rito dei cugini dell'Argentina. Fermi all'epopea di Kempes prima e Maradona poi, e in seguito fucine di talenti che con la casacca della Selecciòn non hanno più mantenuto le promesse fatte. La possibilità di uno sgarbo in casa degli a loro non troppo simpatici inventori del joga bonito avrebbe un valore incancellabile e decisamente più amplificato anche del '50, se lo intendiamo come dramma sportivo da un lato e tronfia goduria dall'altro. E poi c'è Messi. Uno di quelli che con il Mondiale ha un appuntamento molto più intimo. Che attraverso l'incancellabile, oltre al titolo di campione del mondo, farebbe uno scatto verso Maradona e, se non dal punto di vista tecnico, che appartiene al campo delle opinioni, conquisterebbe i gradi di nuovo eroe della Terra del Fuoco. Via l'etichetta di “catalano e basta” e spazio a una consacrazione approvata all'unisono. Il dieci argentino, per definizione un catalizzatore di attenzioni, non può tra l’altro esimersi dal confronto con Cristiano Ronaldo, già infinito nella Liga e in Champions League e troppo facile da esportare sul maxischermo del Mondiale. E se è vero che la Pulce ha fissato l’asticella al Pibe de Oro, un dribbling sul portoghese, in un anno in cui, pur con numeri considerevoli, ha dovuto abdicare, non farebbe certo un torto alla propria autostima. Parlando di ego, argomento sempre caro alla stella del Real Madrid, il palcoscenico brasiliano rappresenta per un atleta della sua età, se la forma l’assiste, l’occasione di coronare un anno da dieci e lode e puntare in un solo colpo sia Messi che Eusebio.
Il derby tutto sudamericano è senz'altro affascinante, pari al duello Messi-Ronaldo, eppure è da più di un lustro che undici furie vestite di rosso dominano campo e avversari sulle note del loro ipnotico tiki-taka. Gli unici a poter vantare tre titoli consecutivi e ad avere l'occasione di arrivare al quarto. Un risultato talmente prestigioso e difficile da equiparare che, se non fosse sufficiente l'atmosfera mundial, annullerebbe banalmente un'eventuale senso di sazietà. Che non avrà certo Diego Costa, spagnolo d’adozione che ha rinunciato alla maglia verdeoro e dovrà allontanare eventuali rimpianti. O Del Bosque, anche lui, come Scolari, sulle tracce di Pozzo.
E’ vero che fuori dai confini continentali un'europea non ha mai vinto un Mondiale, ma oltre alla Roja, sarebbe altrettanto sciocco e imprudente sottovalutare una macchina ben rodata come la Germania forse mai stata così talentuosa. Meno solida come insieme di quella dei panzer del '74 o del '90, ma ricca di piedi buoni, figli di un magnifico processo d'integrazione che ha unito culture e popoli, e magari stanca di collezionare podi e pacche sulle spalle.
A proposito di next generations, tra le più intriganti c’è il Belgio, da decenni fuori dagli appuntamenti che contano e finalmente con un potenziale esplosivo tra le mani. Una squadra di giovani stelle dal gioco tecnico e brillante e il futuro in cassaforte.
All’appello non possono mancare, ovviamente, gli azzurri, vice campioni d’Europa e sul podio in Confederations Cup. Far brillare il made in Italy sotto il Corcovado non è una missione impossibile, così come valorizzare una generazione nata negli anni Novanta e dintorni che ha poco da invidiare al resto del mondo. Senza insistere troppo sui soliti noti, basta soffermarsi su Immobile, Insigne e Verratti, rispettivamente classe ’90, ’91 e ’92, che nel 2012, più o meno di questi tempi, festeggiavano la promozione in A con il Pescara, e adesso, a due anni di distanza si giocano uno dei campionati del mondo più intriganti di sempre. Un bel segnale comunque anche per gli scettici e i più prudenti.
di
Fabrizio Tanzilli