La famiglia di
Ciro Esposito sta dando lezioni di civiltà e di equilibrio a buona parte del mondo ultras di Roma e Napoli, che in queste ore si sta scambiando messaggi minacciosi con annunci di rese dei conti e vendette. Il tifoso napoletano morto dopo quasi due mesi di agonia non è il primo e non sarà certamente l'ultimo morto di calcio nel mondo, ma proprio per questo la sua tragedia va contestualizzata. Non certo da parenti e amici, ma da chi governa il calcio e da chi fra i politici (il 99% della categoria) considera secondo noi giustamente (ma non si può dire) il calcio una utile valvola di sfogo per una gioventù che da decenni non deve più combattere guerre vere. Perché Ciro Esposito non era un delinquente (quasi nessun ultras lo è, al di là dei luoghi comuni di chi non conosce questa realtà), ma un onesto lavoratore che riversava nel tifo buona parte della sua passione. Il 3 maggio scorso però qualcosa di simile a una battaglia è accaduto, a Roma, quando prima della finale di Coppa Italia fra Napoli e Fiorentina un gruppo di tifosi napoletani è stato preso di mira (non è un modo di dire: gli sono state lanciate addosso bombe carta) da un gruppo di teppisti (almeno quattro). Esposito, insieme ad altri napoletani, è andato all'assalto degli aggressori, uno dei quali (c'è un grande sospettato, un noto ultras della Roma, ma le ricostruzioni degli stessi inquirenti divergono) aveva una pistola e ha sparato nel mucchio prima di essere massacrato di botte (tuttora è in ospedale). Si chiama omicidio, al netto di tutti i discorsi calcistici. Ma proprio per questo non è qualcosa da imputare al calcio e bisogna ribadirlo anche in questi giorni: i romanisti non hanno tirato bombe per qualche rigore non dato o qualche fuorigioco dubbio in Roma-Napoli, ma semplicemente perché nella logica ultras i napoletani sono loro nemici (e viceversa). Il tutto è aggravato dal fatto che non si tratta di curve militarizzate come quelle di altri club, con una gerarchia chiara (in particolare quella della Roma è piena di cani sciolti), ma di ambienti dove proliferano gruppi e sottogruppi impossibili da controllare tutti. La situazione economica e sociale non invita all'ottimismo, ma non è colpa di Abete o del suo successore.