Adesso sì, il Mondiale dei Mondiali può affrancarsi della fama che in questi mesi l’ha preceduto. E non si indignino gli inguaribili romantici, devoti all’outsider di turno, ma due semifinali di prestigio come queste racchiudono storie e fascino senza eguali. Tre delle big four, papabili favorite sin dai sorteggi, sono con puntualità al loro posto. La sorpresa, in questo caso, è rappresentata dall’Olanda che, a discapito della Spagna (l’altra big), con merito e qualche brivido ha raggiunto Sao Paulo. Il resto è un copione bellissimo e prevedibile, con Brasile e Argentina ai lembi opposti del tabellone, per una possibile finale inedita e senza precedenti, e la solita Germania, per la quarta volta consecutiva tra le prime quattro del mondo. Se fino ad ora, a parte qualche strappo, ha regnato un cardiopatico equilibrio, da adesso è come se iniziasse un altro torneo. Il miraggio di un traguardo così ambito fa saltare ogni schema e a spostare il peso del destino saranno sostanzialmente tre fattori, due determinanti, uno ineluttabile: benzina, fuoriclasse ed episodi. Arrivati a questo punto contano gambe e testa, che ormai hanno accumulato stress, tossine ed emozioni d’ogni tipo. L’aspetto fisico e mentale può segnare una linea di forte demarcazione tra il sogno e la disperazione, senza tener conto di tattiche e contromosse. Soltanto le stelle possono far saltare il banco, driblando acido lattico e pressioni. Messi, Neymar e Robben hanno tracciato il cammino delle proprie nazionali, accendendosi all’occorrenza. Ora (purtroppo), solo la pulce di Rosario e il tulipano hanno tra i piedi il destino di due popoli. Il terzo dovrà sperare che i suoi compagni ripaghino gli sforzi di chi li ha portati fin lì. Meno legata allo spunto del singolo una solida e piacevole Germania, che gioca come se stesse eseguendo uno spartito. Armonica e scientifica nella manovra, convinta che, facendo il proprio dovere, il risultato sia garantito. D’altronde se dal Mondiale dell’82 ad oggi i tedeschi hanno raggiunto quattro finali e tre semifinali (per ora), significa che il loro metodo funziona. Si scontreranno però con i padroni di casa più emotivi ed emozionali del recente passato calcistico, privi di due campionissimi e, forse per la prima volta, davvero aggrappati al collettivo. Senza nascondersi troppo, i verdeoro non hanno entusiasmato, partendo dal presupposto che sono il simbolo del futbol bailado, hanno sempre subìto gol, tranne nella partita con il Messico, e affrontano la formazione più completa del Mondiale. Però sono il Brasile, e in Sudamerica, di solito, la storia ha un altro corso. Poi c’è la finale delle finali da conquistare, magari giocando meno da Brasile e più all’europea, con gli strappi visti a tratti nelle altre partite. Dall’altra parte c’è tutto. Dalla rivincita della finale del ’78, che gli olandesi non digeriranno mai, alla voglia argentina di alzare quella coppa sulle spiagge di Rio, con possibile “nuevo Maracanazo”, che stavolta sarebbe ancora più drammatico. Perché perdere un torneo del genere in casa, come è accaduto ai brasiliani nel 1950, porta alla disperazione, ma contro gli argentini porta dritti all’inferno. Ma prima c’è un’Olanda da superare. Con Robben che fa il Messi e la sorte che continua a sorridere agli orange. I quarti di finale dominati contro la Costarica sono una di quelle partite che ai rigori si perdono nove volte su dieci. Van Gaal e company, tra genialità e follia, sono ancora vivi e di crediti contro sorte e avversari ne hanno ad iosa. Dalla sfida all’Argentina, alla possibile finale contro la Germania, che sarebbe una replica del ’74, altro ricordo poco caro ai tulipani, all’ultima del 2010 persa contro la Spagna. Lontani dal mito del calcio totale che da sempre li accompagna, i ragazzi olandesi pur soffrendo rimangono quadrati, poi affidano i propri sogni alle accelerazioni del loro numero 11 (e finalmente dai quarti anche al piede di Snejder). Poi agli avversari mancherà l’altro ragazzo di Rosario che sta facendo la differenza (Di Maria), e questo li rende ancor più da “colpaccio”. Ma come detto si gioca dall’altra parte del mondo, dove, calcisticamente parlando, le europee non hanno mai vinto.