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L'America divisa e la NFL anti-Trump

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La vicenda del kneeling, cioè dell'inginocchiarsi durante l'esecuzione dell'inno nazionale americano, invece che ascoltarlo in piedi, era nella NFL iniziata ben prima della presidenza Trump visto che era stata ispirata da alcuni episodi di violenza della polizia nei confronti di afroamericani sospettati di essere delinquenti, ma anche da molti indicatori economici di discriminazione all'interno della società statunitense. Da Colin Kaepernick ad altri, la protesta è dilagata e dal football ha poi toccato anche altre leghe con visibilità mondiale come la NBA, con la discesa in campo (politico) di Steph Curry e LeBron James, con parole (nel caso di James) assolutamente trumpiane. Però quanto accaduto a Londra, nella partita NFL fra Jacksonville Jaguars e Baltimore Ravens, segna probabilmente un punto di non ritorno in quello che in un paese libero era uno scambio di opinioni, anche durissime, fra persone diverse. Infatti circa trenta fra giocatori e membri dello staff delle due squadre si sono inginocchiati durante l'inno, con i dirigenti di queste e di altre squadre che non hanno preso le distanze, anzi. Fiutando il vento mediatico hanno in certi casi dimenticato le convinzioni politiche personali e recitato la parte degli illuminati. Significativo che invece tutti si siano rimessi in posizione eretta quando è stato eseguito God Save the Queen, come a dire che nella società britannica (dove i ceti sociali si possono quasi toccare con mano) le discriminazioni non esistono. Al di là del fatto che le polizie accusate di violenze non siano alle dipendenze di un ente 'centrale' come quelle europee e quindi Obama, Trump o chiunque altro possano in ogni caso fare poco, più del merito politico della questione colpiscono alcuni dati di fatto. Nei roster delle 32 squadre circa il 70% dei giocatori è nero (mentre lo è soltanto il 13% della popolazione statunitense), ma analizzando i singoli ruoli il cosiddetto 'racial divide' è ancora più netto: i running back bianchi sono a malapena il 10%, mentre quasi tutti i kicker sono bianchi, così come l'80% dei quarterback, il ruolo più da copertina del football. I neri sono rappresentati ben sotto al 70% fra gli uomini della linea offensiva, mentre lo sono con un clamoroso 90% fra i ricevitori. Ancora più interessante è chi guarda la NFL di stagione regolare, quindi non calcolando eventi trasversali come i playoff e il Super Bowl: facendo la media fra dati Nielsen e comunicazioni delle varie tivù, si può affermare che circa il 78% dell'audience televisiva NFL sia classificabile (con tutte le forzature del caso, del resto è statistica) come bianco, per trovare una percentuale superiore bisogna andare su NASCAR e NHL. Un'audience che nella stagione scorsa è scesa di quasi il 9% rispetto all'anno predente, con la sottolineatura (fonte Nielsen Media Research) che il calo ha riguardato tutti gruppi razziali e di età e quindi spiegare tutto con Kaepernick trascurando le crescenti difficoltà degli attacchi può essere fuorviante. E quindi? Il dato più strano di tutti, nonostante milioni di opionionisti ci abbiano spiegato che 'L'America è divisa in due' è che nessuno sportivo abbia osato prendere posizione pro Trump e che pochi, in maniera più neutra, lo abbiano fatto in favore del rispetto della bandiera americana pur non dimenticando le ingiustizie sociali. È il caso di Alejandro Villanueva, ex militare in Afghanistan prima di diventare offensive tackle degli Steelers, che si è rifiutato di seguire il consiglio del suo allenatore Mike Tomlin e non è rimasto nello spogliatoio mentre suonavano l'inno. Cosa che all'interno della squadra non gli avrà certo portato simpatie. Insomma, l'America sarà anche divisa ma alcuni vorrebbero l'unanimità nel nome del politicamente corretto.