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L’amaro addio di Pietro Vierchowod

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Lo Zar giocò la sua ultima partita il 16 aprile 2000, uscendo anzitempo dal campo per via di un’espulsione che chiuse più di vent’anni di carriera giocati ai massimi livelli

16 aprile 2000, domenica. Le elezioni regionali attirano l’attenzione e i titoli di radio, tv e giornali. Ma, come ogni domenica, è anche giornata di campionato, la trentesima. Nella rincorsa scudetto che la Lazio ha innescato sulla Juventus, i biancocelesti subiscono una battuta d’arresto, raggiunti a Firenze nei minuti di recupero da Batistuta mentre i bianconeri espugnano la Milano nerazzurra. A Perugia, nelle zone più sporche della classifica, i padroni di casa incontrano il Piacenza, ultimo e in procinto di retrocedere. Vittoria per 2-0 degli umbri, in gol dopo un quarto d’ora con Materazzi e a 15' dalla fine con Rapaic. 


L’espulsione di Vierchowod

Forse è per questo che, in mezzo a quei due gol, Pietro Vierchowod perde le staffe e si fa espellere dall’arbitro Farina per una protesta irriguardosa che non rientra nel suo atteggiamento tipico, ruvido nel gioco ma poco incline alla verbalità, soprattutto quella fuori dalle righe. È la sesta espulsione in venti campionati di serie A: l’ultima risaliva a quattro stagioni prima, quando indossava la maglia della Juventus. Un’uscita anticipata inusuale e, soprattutto, ingloriosa, perché quel giorno, domenica delle Palme di un anno giubilare, per Pietro Vierchowod è l’ultimo sul campo, dopo decine, centinaia di gare nelle quali era risultato spesso un muro invalicabile per gli attaccanti che si erano scontrati sul suo corpo granitico, una sorta di versione animata delle statue che ha tramandato la scultura classica. Quella contro il Perugia era l’ultima di quasi ottocento partite da professionista, delle quali 562 disputate in serie A. Aveva cominciato a fare sul serio con il Como nella stagione 1977-78, quando in serie B aveva raccolto 16 presenze. In quel finire degli anni Settanta, si parlava di lui e di Carlo Ancelotti come dei giovani più promettenti che stava esprimendo il calcio italiano che ancora non si erano manifestati nella massima divisione. Dove arrivò per primo il centrocampista di Reggiolo ma ci rimase più a lungo il difensore di Calcinate, che con la squadra lariana conquistò la serie A nel 1980 per non lasciarla più fino a quel 16 aprile 2000.

Pietro Vierchowod: chi era lo Zar

Il connubio tra l’imponente struttura fisica e il cognome ereditato dal padre, un soldato ucraino dell’Armata Rossa che dopo la fine della Seconda guerra mondiale decise di fermarsi in Italia, gli portò in dote il soprannome di Zar. E Pietro, in effetti, incuteva timore a qualsiasi attaccante avesse la sfortuna di affrontarlo: potente e veloce in ugual misura, capace di ricorrere ai falli più sottili che gli arbitri non riuscivano a intercettare quando la pulizia dei suoi interventi non otteneva subito gli effetti desiderati, Vierchowod era l’incubo degli attaccanti “normali” e una seria preoccupazione per i fuoriclasse come Van Basten e Maradona, che ne ammiravano quasi increduli la grande capacità di concentrazione che metteva nel marcarli. Era talmente forte che, per conquistare trofei e notorietà, non ebbe bisogno né di diventare un personaggio né di giocare nelle squadre con le maglie a strisce: quasi scudettato con la Fiorentina del 1982, fu campione d’Italia con la Roma e la Sampdoria, con la quale sfiorò anche la Coppa dei Campioni, poi vinta nell’unico anno in cui fu a servizio di madama Juventus. Polemiche originate da lui non se ne ricordano: i malumori se li teneva dentro, mettendoli a conoscenza del pubblico solo quando il tempo li aveva sbiaditi. 


Il rapporto di Vierchowod con la Nazionale 

Come quelli legati al suo rapporto con la Nazionale, con cui scese in campo in 45 occasioni e con la quale divenne campione del mondo nell’unico Mondiale in cui non giocò mai per via di un infortunio alla caviglia che costrinse Bearzot a far passare avanti Bergomi nelle gerarchie di squadra. Titolarissimo nel 1986, a Italia '90 ebbe il rammarico di non disputare la semifinale contro l’Argentina: ”Vicini non mi ha fatto giocare la partita più importante. Mi aspettavo di scendere in campo per marcare Maradona. Sinceramente non ho capito l'esclusione. Perché non mettere chi Maradona lo poteva fermare? Restammo in panchina io e Ancelotti. Con noi in campo sarebbe cambiato qualcosa”. Una versione della storia avallata dallo stesso Diego, che in un’intervista aveva detto: "A Italia '90 siamo andati in finale perché Vicini non giocava con Pietro Vierchowod: se avesse giocato in difesa non avremmo mai pareggiato e raggiunto la finale ai rigori. L'avversario più duro mai affrontato. Non mi faceva dormire la notte”. Parole sufficienti a considerare Vierchowod all’altezza dei migliori difensori espressi dal calcio italiano di ogni tempo. Uno che andrebbe studiato dagli allegri giovanotti di oggi che, rintronati dagli input a costruire dal basso che impone la moda, hanno dimenticato i fondamentali del loro ruolo.