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Addio a uno dei più grandi giornalisti sportivi italiani di sempre, capace di eccellere con mezzi diversi e in epoche diverse. Imitato da tanti nel linguaggio, da pochi per il senso critico e la competenza...
Non c’era bisogno della morte, a quasi 91 anni, e della annessa retorica per dire che Rino Tommasi è stato, anzi è, uno dei più grandi giornalisti sportivi italiani di tutti i tempi. Fra quelli multisportivi senza dubbio il più grande, per distacco: numero 1 assoluto nel tennis e nella boxe, credibile nel calcio e in tutti gli sport che amava, in particolare l’atletica come da tradizione di famiglia (il padre Virgilio aveva partecipato alle Olimpiadi nel salto in lungo e lo zio Angelo nel salto in alto), ma anche quelli che una volta venivano definiti sport americani: come dimenticare i suoi Super Bowl degli anni Ottanta? Non è un segreto, visto che lo ha scritto lui stesso più volte, che a parità di importanza dell’evento sportivo il suo cuore battesse soprattutto per la boxe, per la sua capacità di dare emozioni anche a chi pensa di avere visto tutto. Da vedere e rivedere, ascoltare e riascoltare, la telecronaca del sesto round fra Hagler e Mugabi.
Rino Tommasi ha vissuto almeno tre vite. Nella prima, dopo gli inizi da aspirante giornalista, è stato per una decina di anni, di fatto tutti i Sessanta, un grande organizzatore nella boxe, sfruttando un periodo d’oro per l’Italia, sia a livello di stelle (Benvenuti, Mazzinghi, Lopopolo, per citare campioni con match organizzati da Tommasi) sia a livello di personaggi di culto locale, come ad esempio Giulio Rinaldi a Roma. L'onda lunga delle Olimpiadi del 1960, ma anche un'Italia diversa. Questo suo passato da organizzatore gli diede una formazione culturale che nessun giornalista aveva e ha, dandogli uno stile unico, centrato anche sugli aspetti economici dello sport e non soltanto sulla cronaca, meno che mai sulle interviste che Tommasi detestava perché riteneva che un atleta raramente avesse qualcosa di interessante da dire, qualcosa che almeno destasse curiosità nell'appassionato non occasionale. Amante delle statistiche quando averle a disposizione era impossibile e bisognava provvedere da soli (leggendari i suoi quadernetti), prima che i numeri diventassero per tutti un rimedio alla mancanza di idee.
Nella seconda vita, diciamo quella degli anni Settanta, Tommasi lasciò l’attività organizzativa intuendo che la televisione avrebbe ucciso la boxe locale concentrando tutto sui grandi eventi americani e si dedicò al giornalismo scritto, scrivendo soprattutto di boxe e di tennis (come tennista aveva anche partecipato alle Universiadi, vincendo due medaglie) per la Gazzetta dello Sport e altri giornali, prima del folgorante incontro con Silvio Berlusconi che nel 1981 lo nominò direttore dello sport di Canale 5, con libertà di movimento totale sia come giornalista sia come acquisitore di diritti. Un ruolo importantissimo, perché è stato grazie alle scelte di Tommasi che gli italiani hanno iniziato a vedere cose fino a quel momento avvolte nel mito, come il football NFL, il golf dei major, la NBA, la grande boxe americana (Tommasi fece comprare a scatola chiusa tutti i match di Tyson dopo averlo visto per un minuto), eccetera.
Poi il passaggio a Telepiù, diventata in seguito Sky, concentrandosi sulle telecronache: quelle tennistiche insieme a Gianni Clerici arrivando a coprire buona parte dell'era Federer-Nadal (il dio del giornalismo ha permesso che commentassero insieme la finale di Wimbledon 2008), quelle pugilistiche quasi sempre da solo e comunque molto inferiori di numero fino quasi a scomparire: il Tommasi più popolare, per meri motivi cronologici, è questo. Ed è bello, nel dolore per la morte, dire che milioni di italiani hanno conosciuto un giornalista con un grande senso critico, anche nei confronti del suo prodotto e della sua azienda, uno che non faceva l’imbonitore. In questo davvero inimitabile, perché se il suo linguaggio e le sue espressioni celebri, dal 'circoletto rosso' al 'mio personalissimo cartellino', dal '3-0 pesante' al 'mini-break', sono state copiate da tanti, il senso critico o lo si ha o non lo sia ha, come il coraggio. Peccato che Tommasi non abbia potuto raccontare l'epopea di Sinner, di sicuro sarebbe riusciuto a dire cose interessanti in mezzo al po-po-po che sembra l'unico standard ammissibile. Le ore, i giorni, i mesi, sommando le lunghezze delle partite, passati con Rino Tommasi non sono stati tempo perso.
stefano@indiscreto.net
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