I suoi ruggenti anni 60 lo colgono ancora fresco e gagliardo, pungente e persin dimagrito, con lo sguardo vispo sulla vita. Il ciuffo d’ordinanza - suo inconfondibile marchio di fabbrica - se lo si liscia con la mano, come faceva un tempo sui campi in terra rossa, poco prima di servire uno smash. Adriano Panatta li ha vissuti, i suoi formidabili primi 60 anni, tra diritti e rovesci («pochi i secondi, per la verità...») in una vita piena, intensa e, soprattutto, curiosa.
«Ha ragione, sono un curiosone, mi piace informarmi su tutto. Leggo tre quotidiani ogni mattina: il Corriere, Repubblica e Il Messaggero. I giornali sportivi no, controllo soltanto i tabellini. La prosa non serve nello sport, i veri eroismi sono in altri campi della vita. In questi giorni sto leggendo articoli sulle nuove economie brasiliana e cinese. Sarà, ma quando mi reco in quei Paesi vedo soltanto tremenda miseria e povertà. Ma quale new-economy?».
Cento ne pensa e mille ne ha fatte questo ex ragazzo nato tennisticamente al Circolo Parioli, divenuto celebre negli Anni ‘70 con la sua racchetta Vip tra le mani, sospeso tra grandi vittorie e flirt da dolce vita (Mita Medici, Loredana Bertè...). Molti anni prima di Francesca Schiavone - e un decennio dopo Nicola Pietrangeli - Panatta divenne simbolo del new-tennis italiano e depredò (nell’anno santo 1976) gli Internazionali di Roma e il Roland Garros. Quindi vinse la Coppa Davis con Bertolucci, Barazzutti, Zugarelli e capitan Pietrangeli, popolarizzando e quasi imponendo agli italiani, tramortiti da quegli anni di piombo e da troppi governi democristiani, uno sport fino a quel momento elitario e serioso: il tennis.
«La cosa buffa è che il sottoscritto, figlio del custode del Circolo, era tutto fuorché un fighetto. Il Parioli era il mio quartiere ma i pariolini non erano certamente il genere preferito. In quel periodo la coscienza mi suggeriva di stare un po’ spostato verso sinistra. Non sono mai stato comunista convinto, questo no, ma progressista sì, socialista. L’episodio della maglietta rossa, indossata nel 1976 durante la finale di Coppa Davis, nella fascista Santiago del Cile, fu una bella provocazione. Paolone Bertolucci non voleva, lo convinsi».
Dopo il ritiro, Panattone ha interpretato mille ruoli: è stato imprenditore e capitano di Coppa Davis dal 1984 al 1997, marito della bella Rosaria e papà di Niccolò, Rubina e Alessandro, direttore tecnico degli Internazionali di Roma e responsabile del Centro di Riano, campione mondiale (!) di motonautica nella categoria Evolution e opinionista in tv, capobranco dei suoi amici del cuore e ottimo cuoco, scrittore di una bella autobiografia e uomo-immagine per una nota dieta, assessore alla Provincia di Roma e affabulatore, icona d’esportazione e attore nel filmdocumentario “La maglietta rossa”, diretto da Mimmo Calopresti. Non più latin lover («Da ragazzino sostenevano somigliassi a Paul McCartney, poi sono cresciuto»). Un uomo sempre attento alla vita. Non soltanto al tennis.
Panatta, cosa rimarrà del trionfo di Francesca Schiavone a Parigi?
«Il ricordo di un’impresa eccezionale, è stata molto brava. Vincere un torneo del Grande Slam è un premio alla carriera. Ha approfittato di un periodo di livellamento del tennis femminile, ha mostrato qualità e sfruttato un pizzico di fortuna. Peccato, poi, sia andata subito ko a Wimbledon».
Lei, però, non mangiò la terra quando vinse il Roland Garros.
«Quello no. Sono cose che non capisco. Alzai la coppa, salutai il pubblico e me ne tornai a casa. A che servono le lacrime e le sceneggiate? Quando un calciatore fa gol e si toglie la maglia, sembra un pazzo. Ma è il suo mestiere, lo pagano per segnare. Mah».
La Schiavone e la Pennetta tengono alto il vessillo del nostro sgangherato tennis.
«Vero. Ma va fatta chiarezza: il tennis femminile è meno complicato di quello maschile. È meno fisico e la palla va più lenta. Le prime 30 della classifica sono brave, ma i primi 30 della classifica maschile sono fenomeni».
Perché non nascono i Nadal e i Federer in Italia?
«Domanda delle cento pistole... Quando ero capitano di Davis e, poi, quando ho gestito insieme ad altri ex giocatori il settore professionistico della Federazione, i buoni giocatori c’erano: Camporese, Canè, Gaudenzi. Dopo, la Fip ha scelto altre strade. il Centro di Riano è stato chiuso e tutto è stato affidato a coach privati».
L’errore più grosso?
«Il tennis va insegnato sul campo. È tecnica e fisicità, non soltanto psicologia. Logiche diverse hanno portato alla mancata maturazione di tanti potenziali buoni giocatori».
Federer o Nadal, chi sceglie?
«Sono due cavalli di razza. Ma in vita mia non ho mai visto nessuno giocare meglio di Roger. Ha restituito al tennis moderno, picchiato, gli elementi sensibili del tennis antico».
Cosa combinerebbe, in campo, oggi, un Panatta?
«Quello che farebbe un Rivera 25enne ai Mondiali di calcio. Preparato a dovere, con racchette tecnologiche come quelle che si usano oggi, con una scienza medica e un’alimentazione adeguate, sarei tra i primi. Come un tempo».
La più grande soddisfazione della sua vita sportiva?
«Il 1976, l’anno d’oro delle vittorie, quando toccai il cielo con un dito. Per brevi attimi, però. I trionfi e le esaltazione non fanno parte del mio ego. Dopo una grande conquista mi ha sempre avvinto una malinconia infinita. Forse perché sono malinconico di carattere. Dopo aver vinto la Davis o il Roland Garros, dopo aver battuto per due volte Borg o aver raggiunto il quarto posto nella classifica mondiale, mi dicevo: “E allora?”. Non ho mai mangiato la terra, io».
Il rimpianto più grande?
« Nel tennis, la mancata vittoria a Wimbledon nel 1979. Persi contro Pat Duprè nei quarti di finale, al termine di un match infinito. In semifinale avrei incontrato Roscoe Tanner, avversario abbordabile, e in finale Borg. Avrei potuto vincerlo, quel Wimbledon».
Facciamo un giochino: se le dico Coppa Davis, cosa le salta al naso?
«Il fatto di averla vinta una sola volta e di aver giocato, e perso, le altre tre finali in trasferta: nel ‘77 in Australia, poi a Praga e San Francisco. Avessimo giocato a Roma, l’Italia avrebbe almeno un’altra Davis in bacheca».
E gli Internazionali di Roma?
«Fino al 1976, pensavo non ce l’avrei mai fatta a vincerli. Poi non è stato male conquistare il torneo che si gioca nella mia città».
Il Roland Garros?
«Ricorda il rischio di non poterli vincere per... mancanza di scarpe! La mattina della finale contro l’americano Solomon, mi accorsi che le mie preferite se l’era riportate a Roma Bertolucci, per sbaglio... Terrore... Telefonammo a Paolo e le feci portare a Fiumicino, dove vennero imbarcate sul primo Roma-Parigi in partenza. Un amico le andò a recuperare all’aeroporto De Gaulle e me le fece recapitare con un taxi al Roland Garros. Dieci minuti dopo ero in campo e vinsi».
E Wimbledon, cosa le ricorda?
«Il sapore dell’erba, gli inchini verso il Royal Box prima del match, ma anche le giornate noiose. E poi Duprè...».
Leggenda metropolitana degli Anni 70: se Panatta si fosse allenato meglio, avrebbe vinto di più.
«Nella mia vita ho sempre detestato la stupidità... Ho cavalcato l’era di Borg, del marine Connors, del poeta Vilas, di McEnroe, Nastase, Ashe, Laver, Rosewall, Newcombe, Lendl. Ho giocato per anni, ho vinto e perduto contro questi draghi. Inutile aggiungere altro».
Il più grande tennista di tutti i tempi?
«Probabilmente Rod Laver, umile e grandioso: ha cambiato il tennis».
E Borg?
«Ha allargato il campo con i suoi colpi liftati e vinto cinque Wimbledon senza sapere il perché. Sono molto amico con Bjorn, un finto uomo di ghiaccio che emanava un’imperturbabilità cosmica. Lo aiutai quando decise di tornare al tennis a 34 anni, dopo 6 di stop. Capii che era la sua prima decisione da uomo libero, affrancato da depressioni e da inquietudini. Sino a quel momento aveva condotto un’esistenza da campione-bambino».
Il più antipatico di tutti i suoi avversari?
«Ivan Lendl. Su di lui pensieri orribili, ricordo il suo sorriso da pitone. Con me ce l’aveva a morte per un doppio 6-0 che gli avevo inflitto in Davis».
Vero che lei ha anche brevettato un dispositivo che salva la vita ai piloti di motonautica?
« Ho aiutato il professor Dal Monte nel progetto Tartaruga, una capsula di sopravvivenza che protegge la testa del pilota nel caso in cui la barca si rovesci. Oggi è il corredo indispensabile di tutti gli off- shore, ma non l’avevamo ancora brevettato quando il povero Stefano Casiraghi morì durante una gara. L’avesse avuta, sarebbe ancora vivo».
Perché la motonautica dopo il tennis?
«Amo il mare e le sfide. E come le ho detto, sono curioso. Metta insieme le tre cose».
Ultima voleè: la prima cosa che vede sbirciando i suoi anni 60?
«La mia famiglia, Rosaria. E i miei tre figli: li avrei voluti guidare su un campo da tennis, insegnare loro l’arte. Forse non l’ho fatto per pudore o per sottrarli all’implacabile confronto. Peccato... Ora c’è il mio nipotino, chissà. Il tennis e la vita, in fondo, sono anche divertimento. Me lo suggerì, una volta, a Wimbledon, Neale Fraser prima di un match. Aveva ragione».