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Meglio essere qui che all'Inter

"Non invidio Benitez, il quale non potrà migliorare la stagione di Mourinho. mentre qui ci sono dei margini" la ricetta di Gigi Del Neri è dura quanto semplice: "dobbiamo ripuntare sulla professionalità dei giocatori e sull'orgoglio della loro maglia. Anche i campioni lo devono sentire. Con il 4-4-2 che diventa 4-2-4 potremo divertirci molto". Lo scudetto? "Non corro mai per arrivare secondo"

Redazione

9 settembre 2010

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Il presidente più importante nella vita di Gigi Del Neri non si chiama Andrea Agnelli, bensì Paolo Mazza. E ritorna da un passato lontano, dimenticato, quando l’attuale allenatore della Juventus era un rude centrocampista della Spal di Ferrara. «Mazza era un presidente stupendo, pieno di carisma. Aveva fatto parte della famosa commissione per la Nazionale ed era un personaggione, come si dice oggi. Veniva a prendere noi calciatori a casa con la macchina. Pensi: io guadagnavo diecimila lire al mese». Quello è rimasto il calcio preferito di Gigi Del Neri. Non negli aspetti tattici, tantomeno nella preparazione atletica e nella presunta scientificità di certi ritiri, bensì nei valori. Nel legame tra professione e passione. Il 23 agosto saranno 60 anni di vita per questo tecnico dagli occhi azzurri e dai modi genuini, arrivato a sedersi sulla panchina più calda del Paese dopo la catastrofe dell’ultimo anno, disastro che ha spazzato via dirigenza e staff tecnico. Lo aspetta un compito apparentemente ingrato, ma al tempo stesso bellissimo: restituire una Juve credibile ai suoi tifosi. «Come ha detto lei, il 23 agosto saranno 60 anni, ma direi che è niente, è gioventù. Mi sento come quando avevo 20 o 30 anni ed ero assorbito dal calcio esattamente come lo sono adesso. Una passione che mi accompagna da sempre. Semplicemente, oggi sono di fronte alla sfida più importante di tutte». Sono in pochi a poter dire di avere iniziato la carriera nell’Opitergina ed essere arrivati alla Juventus. «Ma non è un regalo. Mi ritengo fortunato, al tempo stesso so di essermi guadagnato ogni cosa, ogni gradino. In realtà sono partito dalla Pro Gorizia e l’anno dopo sono passato al Partinicoaudace, che si fa fatica a pronunciare e che lei probabilmente non sa nemmeno dove si trovi. Poi tantissima C». Com’era il calcio di sotto?
«Difficile, complicato, da fare spesso con pochi mezzi e molta fantasia. Ma utile e istruttivo: imparare a gestire situazioni diverse, a conoscere giocatori e dunque cervelli uno differente dall’altro. Partire dal basso ha qualche svantaggio, ma anche dei vantaggi. Ad esempio abituarti a capire in fretta l’ambiente in cui arrivi». Vale anche per la Juve di oggi? Il Chievo dei miracoli, il biennio con l’Atalanta, la Sampdoria di Champions: Del Neri quale considera il capolavoro professionale?
«Al Chievo mi sono fatto conoscere dal grande pubblico, ma dico la Ternana, senza perdere mai per due anni, vincendo quasi quaranta partite. Però fanno crescere anche le esperienze negative, che nel mio caso non sono state così fallimentari come si è voluto far credere. Parlo di Roma». Del Neri è cambiato molto in questo tragitto?
«Un po’ sì, è inevitabile. Un tempo dialogavo di più con i giocatori, cercavo maggiormente il confronto. Credo che avvenga in ogni professione: all’inizio si è più morbidi, poi l’esperienza ti insegna a essere risoluto e risolutivo. Una parola in meno non è mica sbagliato. Quello che però mi ha contraddistinto in tutti questi anni è stata la coerenza del mio percorso, sereno con me stesso». Coi giocatori della Juve è duro?
«No, però devono rispettare me e i loro compagni. Vale in ogni spogliatoio. Non pensi che essere alla Juve sia tanto diverso dal guidare l’Atalanta o il Chievo o la Sampdoria». In giro non le crederanno.
«Qui hai una qualità più importante, ovvio, sono tutti nazionali. Dunque lavori su un materiale migliore. Ma le dinamiche, di gioco e di gruppo, sono analoghe. Glielo dice uno che ha dovuto dimostrare sempre qualcosa in più». Meglio arrivare alla Juve dopo un anno pessimo o farlo in un quadro più sereno?
«Meglio adesso, indubbiamente, perché ci sono margini di miglioramento. Le dico di più: meglio essere finiti alla Juventus che non all’Inter come è capitato a Benitez. Vincere di più a Milano è impossibile, mentre qui bisogna riabituarsi a farlo, con fatica ma senza ossessioni. Da un certo punto di vista, e torno al punto iniziale, è più difficile farsi conoscere quando sei in basso che non adesso che hai tanti campioni in rosa». Molti di quei campioni lei dovrà recuperarli. Troppo facile il riferimento a Felipe Melo e Diego.
«Non mi piace la parola: dovrò rigenerarli. Ma non è in discussione la loro tecnica, è in discussione semplicemente un’annata sbagliata. L’ultima». E le pare poco?
«Bisogna tornare alla professionalità dei giocatori, all’orgoglio e alla fierezza di indossare questa maglia. Dobbiamo rappresentare un potere calcistico. E tutti si devono sentire partecipi di ciò che si fa. La Juventus ha la forza per arrivare al livello dell’Inter, il calcio non è una scienza impossibile. Ma prima di tutto bisogna avere la sicurezza di ciò che si fa». Glielo chiedo direttamente: se il 22 maggio la Juve fosse seconda dietro l’Inter, lei sarebbe soddisfatto?
«Le do allora due risposte. Prima: l’Inter l’ho battuta due volte negli ultimi due anni. Seconda: non mi accontento mai, sono perennemente per il miglioramento. Oggi ho l’occasione di farlo bene, nell’anno del riscatto». L’Inter sembra ancora di un altro pianeta.
«L’anno scorso sembrava avere già vinto il campionato a dicembre. Invece la Roma le ha preso più di 10 punti. E chissà come sarebbe andata senza il successo della mia Samp all’Olimpico. Ciò dimostra che le distanze si possono anche recuperare». Mi dice un buon motivo per avere fiducia in questa Juve?
«La fiducia nella società, che vuol dire presidente, direttore generale, ma anche magazziniere, massaggiatore, addetto stampa, team manager. Quasi tutte le figure sono state cambiate, ma noi nuovi siamo qui per non sfigurare. Ah, dimenticavo: nuovo anche il disegno tattico». Impossibile spostarla dal 4-4-2. Ma non rischia di essere limitante un’impostazione così netta con i grandi giocatori?
«Ribalti la domanda: pensi a che cosa accadrebbe se riuscissimo ad applicare quello schema con i campioni che abbiamo. Si immagini il divertimento. A questo tendo io. Non si dimentichi neanche che la mia Samp ha avuto una delle migliori difese del campionato e un attacco eccellente. Evidentemente l’equilibrio paga». Prima parlava della fierezza. Probabilmente non varrà meno degli schemi di gioco
«La fierezza deve appartenere anche al campione. Insieme alla voglia di calcio. La passione di cui parlavo all’inizio per il gioco, per il pallone, quello di anni fa. Deve essere la stessa». L’ha vista in Del Piero?
«L’ho vista in lui e in altri campioni come Trezeguet. Se non avessero quella passione, diciamo pure quella fame, non reggerebbero i sacrifici». Del Piero è un titolare?
«È un giocatore che deve e può dare il suo enorme contributo tecnico alla squadra. Non ha l’obbligo di giocare per forza, ma non è ancora un dirigente. Se è a posto, per qualità non ha rivali». Si è parlato molto della convivenza impossibile tra Del Piero e Diego.
«Ho detto in conferenza stampa ai suoi colleghi che io gioco con una punta alta e una bassa. Semmai con due alte, ma mai con due basse». Perché Martinez?
«Ci piacciono giocatori tipici e di ruolo, nel concetto del 4-4-2 che poi deve diventare 4-2-4. Lui garantisce spinta. E nelle grandi squadre c’è l’obbligo di abbinare forza e qualità. È una seconda punta aggiunta». Perché Bonucci?
«Forza fisica, qualità, esperienza, con Chiellini costituisce la coppia del futuro. Non solo della Juventus, ma della Nazionale». Perché Storari?
«Perché lo conosco: ha esperienza ed è una sicurezza. Lo ha già dimostrato in questo primissimo scorcio». Perché Pepe?
«Attacca bene lo spazio ed è un grande lavoratore. Ha raccolto il momento giusto riciclandosi in modo totale. Lui è la dimostrazione precisa dell’applicazione». Perché Motta?
«È giovane, ma già con tanti anni di esperienza in Serie A. Ha esordito con Rossi a Bergamo. Mi creda: è difficile trovare bravi laterali destri». Lei ha accennato qualche settimana fa ad alcuni innesti ancora necessari. Ma a oggi, agosto inoltrato, è soddisfatto della scelta di venire alla Juve?
«Sì, ma il bello deve venire. E verrà ancora di più se riuscirò a fare ciò che ho in testa».

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