A quasi tutti sembra impossibile che un ragazzo di 32 anni, portiere della nazionale tedesca (era a Euro 2008), abbia in mente il suicidio. Quasi, appunto. Perchè Robert Enke soffriva di depressione da quando di anni ne aveva 19: un male che inizialmente credeva dovuto allo stress da carriera calcistica, ma che in seguito si sarebbe rivelato nella sua vera natura. Senza spiegazioni, senza possibilità di farsi aiutare, senza vie di uscita. La vita di Enke, terminata con il suicidio (buttandosi sotto un treno) del 10 novembre 2009, è raccontata nella biografia 'Robert Enke, una vita fin troppo corta', di Ronald Reng, uscita in questi giorni in Germania. L'interesse del libro, stando alle anticipazioni che si sono lette, non sta tanto nel descrivere la depressione (un milione di opere sono state scritte sull'argomento) quanto nel raccontare gli episodi di mascheramento della stessa. Ad un certo punto l'obbiettivo di Enke non era diventato tanto guarire, quanto nascondere il proprio male al mondo esterno. A volte scomparendo, più spesso simulando infortuni 'da calciatore'. Il mondo è troppo pesante per chi ha una sensibilità superiore alla media (Enke era attivista della PETA, l'associazione che si batte per il trattamento etico degli animali), per chi ha subito traumi devastanti (la morte nel 2006 della figlia di due anni, per una malattia cardiaca) e anche per chi semplicemente non ne può più. Robert Enke rientrava in tutte e tre le categorie, una buonissima carriera da portiere (soprattutto nel Benfica e nell'Hannover, mentre a Barcellona era stato solo riserva) non è bastata a dare un senso al tutto.