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Redazione

4 novembre 2010

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Vorrei dire anch'io qualcosa sul dibattito che si è acceso nei giorni scorsi sul nostro sito a proposito delle parole di Andrea Agnelli sugli scudetti della Juventus e su Moggi. Premesso che in un Paese che è passato dal tirare le monetine a Craxi a intitolargli le piazze, non c'è nulla di più scontato delle riabilitazioni, ormai compiute in tempo reale, c'è stato un passaggio del giovane principe torinese che mi ha irritato ben di più. Si può infatti deformare ogni fatto, piegare ogni verità, ma non la lingua italiana. Quando ha detto che bisogna tutelare il "prodotto" calcio, lì sì che mi sono risentito. Sono sicuro che Agnelli l’abbia detto in maniera inconsapevole, magari per avere ascoltato il termine merceologico in un Cda di famiglia o per averlo fatto suo negli anni della Bocconi. Ma il calcio non è una merce, mica è un paio di fettine di roast-beef da vendere o comprare all’Esselunga. Il calcio può essere chiamato sport, pratica, persino gioco o passione. Ma mai prodotto, mai un bene di scambio. E le parole, lo sappia Andrea Agnelli che rappresenta una delle poche speranze della classe dirigente del futuro, valgono per me più che ai contratti con i giocatori. Lo spiegava Platone qualche secolo prima di Krasic o Del Piero. Parlare bene significa fare bene all'anima. Traducendo il precetto nel calcio, se la smettessimo di evocare bacini di utenza, merchandising, share televisivi e chissà quale altro maledetto vocabolo inglese, beh, sono convinto che potremmo finalmente iniziare a restituire bellezza a uno sport imbarbarito dai capitani di ventura. Dietro al termine "prodotto" calcio, ho rivisto il volto grifagno di Giraudo, i gessati di Cragnotti, i sorrisi curiali di Tanzi e tutto il bel mondo della finanza che ha preso il football italiano in cima al mondo e ce lo ha restituito spolpato. Fu proprio Giraudo a confrontare i calciatori prestati alla Nazionale alle macchine dell’industria e fu Cragnotti a portare il pallone in Borsa, prima che Tanzi pensasse a portarsi direttamente via quella dei suoi investitori. Dopodiché è stato il diluvio moderno, con i vari Cellino e Lotito intenti a vendere ogni cosa vendibile, a partire da tutta la tv. Per pochi quattrini, avidi come un Malavoglia qualsiasi, questi Prenditori del calcio hanno ceduto i diritti che in altri Paesi avrebbero fatto campare tre generazioni, si sono fatti portare via la gente dallo stadio senza dire nulla. Non una campagna vera a favore dei tifosi, mai un’azione mirata al loro cuore invece che al loro portafogli, già assotigliato dalla crisi. Persino quando c’erano di mezzo la dignità e la tessera del tifoso, hanno optato per la seconda e per i circuiti bancari che ci stanno dietro. Però è così moderno, è così cool parlare del calcio come di un bene qualunque, di un oggetto da prendere, spostare e smontare come un mobile dell’Ikea. Peccato solo che a differenza del trucciolato svedese, il pallone abbia dentro storie, uomini, sentimenti che gli hanno consentito di superare guerre e paci. Se Andrea Agnelli, che andava in campo dai tempi di papà e che ha fatto in tempo a vedere gli stadi pieni, fa parte del nostro mondo, la smetta per favore di dire prodotto calcio.

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