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Questo sì che è un vero Italian Job

Redazione

9 dicembre 2010

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La coabitazione calcistica tra inglesi e italiani, storicamente forzata, di tanto in tanto esaltata per motivi che a distanza di tempo paiono meno felici di una volta (è il caso di Gigi Peronace, il dirigente-procuratore noto negli anni Sessanta e Settanta come tramite tra Italia e Gran Bretagna), si è decisamente volta al sereno negli ultimi anni. Quelli in cui la Premier League ha smesso di rappresentare un’avventura per calciatori, allenatori e persino dirigenti nostrani, trasformandosi semplicemente in un’estensione dell’italica Serie A. Adattato ovviamente alle diverse condizioni presenti lassù, dove vige ancora una curiosa miscela tra presente e passato, con un pizzico di futuro che sta avendo il sopravvento. Sono lontanissimi, in più di un senso, i tempi in cui il passaggio di un calciatore italiano a un club inglese rappresentava un’avventura completa: spesso era tale per la scarsa preparazione del calciatore stesso, che più di una volta appariva gettato allo sbaraglio da chi ne curava gli interessi. Solo così si spiega il duro impatto di Fabrizio Ravanelli, certo non un personaggio che abbia problemi ad affrontare realtà di ogni tipo, con l’ambiente di Middlesbrough, al quale evidentemente non era stato preparato. Impatto duro per le differenti abitudini di allenamento, per le diverse tecniche di fare gruppo, certo non per il livello del gioco, come ricorderà chi rammenta la tripletta al Liverpool all’esordio. Adesso è molto diverso. Roberto Mancini che all’arrivo a Manchester cita Coronation Street, la più celebre soap opera inglese ambientata proprio lassù, è indice della maggiore consapevolezza di un principio universale e spesso ignorato: mostrare rispetto per la realtà in cui ci si deve inserire. Rispetto che ai tempi eroici pochi avevano mostrato, forse per timidezza: non è certo il caso di Gianfranco Zola, tuttora intoccabile per la tifoseria del Chelsea. O di Paolo Di Canio, il cui percorso è stato ancora più difficile e mirabile, perché viziato da quella spinta all’arbitro Paul Alcock che poteva rappresentare la fine, in un Paese poco propenso a comportamenti del genere, e si è invece trasformato in una tappa di passaggio verso un presente che vede addirittura un salottino a lui intitolato all’Upton Park, lo stadio del West Ham United. La Paolo Di Canio Lounge è stata inaugurata per la stagione 2010-11, è un elegante bar con parquet, tavolini, trespoli e schermi al plasma sotto lo sguardo spiritato dello stesso Di Canio, che domina la scena da una gigantografia. L’accesso per un’intera stagione costa poco più di 2000 euro (comprensivo di posto a sedere per la partita in poltrona imbottita), ma quel che conta è il pensiero, cioé che un calciatore italiano abbia ricevuto un tale onore da un club tradizionalmente poco cosmopolita. L’afflusso di allenatori italiani è invece più recente e risponde a banali criteri di razionalità tattica: con l’invasione, a volte insensata, di giocatori stranieri, la tipologia di gioco ha perso gran parte delle caratteristiche che un tempo potevano definirsi “inglesi”, e allora tanto valeva dotare i calciatori foresti di tecnici esperti, capaci di coagularli più rapidamente in una squadra e di trovare la soluzione tattica migliore. Non che non ci siano allenatori inglesi in grado di farli, ma al capitolo panchine, come a quello giocatori, con il passare del tempo si è sviluppato una sorta di razzismo a rovescio, tra i dirigenti, volto a privilegiare lo straniero perché ritenuto più preparato su vari fronti. Anche quando “straniero” è per modo di dire: se Carlo Ancelotti guida magnificamente un Chelsea ricco ma non più straricco, se Capello é il Ct della Nazionale e se Mancini cerca di dare forma al debordante progetto Manchester City, Roberto Di Matteo ha portato il West Bromwich Albion a una partenza migliore del previsto. Un caso particolare, come miscela di nazionalità e sentimenti. Svizzero di nascita, italiano di carriera calcistica e Nazionale, ormai inglese da tanti anni per residenza, lingua e, sempre più, mentalità e capacità di comprendere i media. Senza volerlo, Di Matteo incarna il volto moderno della Premier League, un campionato in cui Manchester City-Chelsea dello scorso 25 settembre è stata una partita di calcio internazionale vista in mezzo mondo, giocata da squadre con allenatori italiani, maglie con stemmi di club inglesi, in uno stadio britannico e però di ispirazione straniera, quando 25 anni fa sarebbe stata un truculento e bellissimo corri-corri agonistico di modesto livello tecnico, contornato da tumulti e ripreso da una sola telecamera, sistemata a picco sulla linea laterale del traballante e atmosferico Maine Road. È il calcio moderno, bellezza, e gli italiani ci stanno proprio bene: dopo tre sconfitte di fila non c’è ombra di ultras a insultarti all’allenamento, vuoi mettere?

r. g.      

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