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I Conte tornano

Redazione

9 dicembre 2010

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Due caratteri antitetici: impulsivo e caparbio Antonio Conte, concreto e riflessivo Giorgio Perinetti. Fatti apposta per scontrarsi, viene da pensare, e così è stato in passato, con litigate feroci ai limiti della rottura a scandire un rapporto spesso pericolosamente in bilico. E tuttavia deve valere per loro la teoria degli opposti che si attraggono, se è vero, come è vero, che Conte&Perinetti sono insieme per la quarta volta (Juventus, Siena, Bari, ancora Siena) negli ultimi dodici anni. Fatti per litigare, ma anche per capirsi. Dopo la folgorante stagione di Bari, con quella promozione conquistata d’impeto, ci riprovano ora a Siena assecondando un progetto lungimirante. La presenza di Massimo Mezzaroma ha ridato credibilità a una società uscita a pezzi dalla precedente gestione, ma è proprio la “strana coppia” a giustificare un obiettivo finalizzato al ritorno immediato in Serie A. «Ho detto subito di si al Siena» dice Conte «quando è stato Perinetti a chiedermelo. Insieme abbiamo sempre lavorato bene, lui è un direttore che sa ascoltare. Il resto lo ha fatto Mezzaroma: feeling immediato e un progetto che si sposa perfettamente con le mie ambizioni personali». Proprio l’ambizione (una molla essenziale, ma al tempo stesso un limite) ha rischiato spesso di condizionare la carriera di Antonio Conte, come quando ha rotto con il Bari per inseguire un sogno Juventus mai decollato. Un atteggiamento che ha finito per metterlo in cattiva luce di fronte a un ambiente ben poco disponibile ad accettare scelte controcorrente. E tuttavia proprio da quel passo falso, e dal successivo sfortunato esito dell’avventura atalantina, è ripartita la sfida di Conte, chiamato a lottare «contro tutto e contro tutti», come lui stesso ama certificare. Anche l’orgoglio, oltre all’ambizione, è pur sempre una molla speciale. «Sono stati due grandi maestri come Trapattoni e Lippi» dice Antonio «a trasmettermi il gusto della sfida. La mia tenacia e la mia voglia di imparare hanno fatto il resto. Ricordo le prime lezioni di Trapattoni quando passai dal Lecce alla Juve. Mi portavo dietro l’immagine di Tardelli, Marco era il mio modello ma senza Trap non sarei mai riuscito ad avvicinarlo: ogni giorno, a fine allenamento, mi dedicava mezz’ora, insieme con Sergio Brio, per affinare la tecnica. Mi faceva curare i fondamentali, gesto dopo gesto, compreso quel tiro di collo piede che sarebbe diventato più tardi uno dei miei colpi più efficaci. Anche da allenatore cerco di trasmettere questi concetti: senza applicazione, senza sacrificio, non si va da nessuna parte. Ma alla base di tutto deve esserci la passione, la stessa che spinge ancora oggi il Trap, a 71 anni, a fare il giramondo e a mettersi continuamente in discussione». E Marcello Lippi, reduce dal flop del Mondiale sudafricano? Antonio Conte non ha dubbi: «Un maestro, tra i migliori del mondo in assoluto. Da un lato il progetto tecnico, che ha sempre una sua logica; dall’altro la capacità davvero unica di motivare e di gestire la squadra. Gli eventuali errori di percorso? Lippi è una persona intelligente, non avrebbe alcun problema a ricredersi. Ma nella sostanza è sempre stato un vincente e rimarrà ancora tale a gioco lungo. Il mio rapporto con lui non è sempre stato idilliaco, ero un suo capitano, eppure in alcuni momenti abbiamo fatto scintille. Alla fine, però, devo ammettere che ha quasi sempre avuto ragione lui». Trapattoni e Lippi come maestri. Non gli unici, tuttavia. Ai tempi della irrefrenabile volata promozione del Bari, Conte non ha avuto dubbi nell’indicare un mix di opzioni mutuate da allenatori nei quali, in qualche modo, ha finito per riconoscersi. Arrigo Sacchi, per esempio, così diverso da Trapattoni e anche da Lippi, ha recitato un ruolo fondamentale proprio per la capacità di “aprire le menti”. «Quando noi juventini arrivavamo in Nazionale» ricorda Conte «ci calavamo in un altro calcio. Cambiavano i tempi, i movimenti, le regole dell’organizzazione. Chi giocava a uomo stentava ad apprendere i concetti della zona e tuttavia, all’improvviso, tutto diventava chiaro, la lezione aveva lasciato il segno. Il mio mix ideale? Sacchi per la didattica, Lippi e Ancelotti per la gestione dello spogliatoio, Trapattoni per il rapporto umano. Per la lettura delle partite, invece, nessuno meglio di Fascetti e Mazzone, infallibili in panchina. Poi c’è Mourinho, naturalmente: da lui ho copiato gli allenamenti a porte chiuse, la necessità di nascondere la squadra quando si sperimentano soluzioni nuove». C’è un allenatore, in realtà, che non viene citato, lapsus freudiano, ed è Giampiero Ventura, colui che ha rilevato Conte sulla panchina del Bari e che si è inserito idealmente - con una grande stagione in Serie A - lungo la rotta in precedenza tracciata. Alla base del Bari della promozione c’era infatti la capacità di passare nei momenti più concitati della partita da un didascalico 4-4-2 a uno spregiudicato 4-2-4, erroneamente gabellato per avveniristico, visto che lo utilizzava già Feola con il Brasile a Svezia ‘58. E quel modulo così spettacolare, fatto di ripartenze vertiginose e di soluzioni marcatamente offensive, ricalcava in tutto e per tutto le modalità applicate da Ventura nel Pisa. Non a caso, una volta entrato Conte in rotta di collisione con Matarrese, Giorgio Perinetti trovò naturale affidare la squadra proprio a Ventura, nel segno della continuità. Non bastò un ingaggio triplicato a trattenere a Bari un Conte già ammaliato dal sogno juventino. «Mi sono dato quattro-cinque anni di tempo per arrivare al top» aveva detto allora. «Non mi interessa una carriera di medio calibro, per vent’anni ho sacrificato la famiglia al calcio, se devo fare altri sacrifici deve valerne davvero la pena». L’Atalanta avrebbe dovuto rappresentare, nelle intenzioni, un passo importante in questa escalation verso i massimi livelli. L’approccio si rivelò invece subito difficile, un po’ per il temperamento troppo impulsivo di Conte e molto per il rapporto conflittuale con Cristiano Doni, indiscusso idolo locale e altrettanto indiscusso leader dello spogliatoio. Il tutto accentuato dai carichi di allenamento proposti dal marine Ventrone e ritenuti dal gruppo troppo pesanti. Conte tuttavia, a questo proposito, è sempre stato irremovibile: non a caso proprio la richiesta di riportare Ventrone a Torino sembra essere stata alla base del “no” juventino. E pure a Bari c’è chi ricorda quanto sia sempre stato difficile il rapporto tra il preparatore e Perinetti. Non a caso a curare la preparazione del Siena non c’è Ventrone, oggi, bensì la coppia D’Urbano-Saracini. L’esperienza negativa di Bergamo, culminata con il durissimo confronto con il presidente Alessandro Ruggeri, ha costretto Conte a limare certi aspetti del carattere un po’ troppo ruvidi. Le incomprensioni si sono appianate col tempo e tuttavia c’è un errore, come sottolinea Perinetti, che dovrà essere adeguatamente memorizzato: «Alla base del fallimento di Bergamo c’è stata soprattutto la scelta di subentrare in corsa a Gregucci. Antonio Conte, per rendere al meglio, deve partire da zero, costruire la squadra passo dopo passo, senza essere costretto a correggere il lavoro di chi lo ha preceduto». Al momento di dare forma al Siena, Conte ha trovato in Perinetti un alleato imprescindibile: il diesse conosce infatti a memoria la sua filosofia, che richiede la presenza di esterni veloci e di centrocampisti di qualità. Di qui la scelta caduta su giocatori che Conte ben conosce perché li ha già avuti con sé (Kamata, Carobbio, Coppola) e che sanno interpretare al meglio il suo pensiero. «Io e Antonio» sottolinea lo stesso Perinetti «abbiamo due doti in comune: la passione per il lavoro, che è quella del primo giorno, e il fatto che non ci accontentiamo mai. Pensiamo tutti e due che la vittoria più bella non sia quella che abbiamo appena festeggiato ma la prossima che festeggeremo». Anche le sconfitte, come la prima in campionato subita ad Empoli, un 3-0 che ancora brucia, possono aiutare a maturare. Lo dimostra la serenità con cui Conte, a differenza del passato, ha analizzato un partita piena di contraddizioni. «Le grandi squadre» ha detto «sono quelle che dimostrano di sapersi rialzare. La nostra crescita passa anche attraverso il superamento delle difficoltà e delle delusioni. Molti ci aspettano al varco: noi risponderemo colpo su colpo lavorando a testa bassa: non esistono altre ricette». È ancora una volta, dunque, “Conte contro tutti”. Una ricetta sperimentata con successo a Bari e riproposta ora a Siena.

Adalberto Scemma

   

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