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Li ho messi tutti in buca

Redazione

18 dicembre 2010

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Il pallone nei pensieri e la terra come passione di una vita: è qui, nella campagna ferrarese, che vive Giovanbattista Fabbri, per tutti Gibì. Ottantaquattro anni portati splendidamente. Il suo quartier generale è in una villetta a due piani dall’architettura moderna, in mezzo a cinque ettari di terreno, alberi da frutto e l’immancabile orto. Lo specchio fedele di una filosofia di vita che ha avuto nel calcio la sua migliore espressione. Non solo nella prima parte di carriera, quella da duttile centrocampista di Serie A sul finire degli anni Quaranta. Quanto nella seconda, quella da illuminato tecnico, capace di imprese epiche in provincia. Il picco fu nel biennio 1976-78 alla guida del Lanerossi Vicenza: il suo “Gibì show” più bello. È così mister? «Gli anni di Vicenza mi hanno regalato le emozioni più forti e durature. Non solo perché arrivammo secondi dietro la Juventus giocando un calcio moderno e spettacolare. La cosa più bella furono i rapporti umani di quel periodo, tuttora vitali. E non le dico le feste quando capito a Vicenza. L’ultima due anni fa, quando ci siamo ritrovati per festeggiare i 30 anni dall’impresa».
Con chi ha mantenuto rapporti più stretti?
«Con tutti i ragazzi. Ho rivisto spesso Lelj, Carrera, Filippi, Galli, Faloppa».
E Paolo Rossi?
«Come no, Paolo è uno di casa».
Immagino che con lui il rapporto sia speciale.
(sorride, gli occhi brillano) «Che vuole, Paolino per me ha significato tanto. Nei tre anni che è stato al Lanerossi ha segnato 60 reti, ha vinto per due volte il titolo dei cannonieri. È andato ai Mondiali di Argentina quando si era appena affacciato al calcio che conta».
Stupì anche lei o in qualche maniera si aspettava la sua esplosione?
«Ho visto Paolo crescere giorno dopo giorno, dalle prime apparizioni in Serie B alla A. Magari non credevo che Bearzot lo proponesse subito titolare, pensavo piuttosto a un impiego da riserva. Ma ero sicuro che una volta dentro, non avrebbe fallito. E pensare che all’inizio Farina non lo voleva al Vicenza».
Perchè?
«Veniva da una stagione deludente al Como (1975-76, ndr). Aveva fatto solo sei apparizioni, di gol nemmeno l’ombra. Il cartellino era della Juve, ma nessuno in casa bianconera sembrava crederci molto. Farina aveva già fatto l’accordo con Boniperti per prendere in prestito Verza, Rossi arrivò in più».
Paghi uno, prendi due.
«Più o meno, anche se di soldi ne corsero pochissimi. Paolo arrivò in comproprietà, ma Farina non fiutò l’affare. Verso fine stagione lo vide durante una gara Primavera tra Como e Vicenza e non gli piacque. Poi c’era la storia dei menischi e di una certa fragilità fisica. Ricordo sempre che venne da me e mi disse: “Con Verza ok, ma con Rossi mi sa che abbiamo preso una bella fregatura: ho paura che sia un bidone”».
Lei non era dello stesso parere, giusto?
«Confidavo sulle informazioni che mi avevano dato Capello e Altafini, suoi compagni alla Juve. Dicevano che era fortissimo, al livello delle ali brasiliane: velocità, scatto nel breve e bravo con i piedi. Tutto vero, me ne accorsi fin dal primo giorno di ritiro a Rovereto. Così come mi accorsi di alcuni difetti».
Quali?
«L’eccessiva lontananza dalla porta e il dribbling ossessivo. Togliergli il pallone dai piedi era difficilissimo, ma il suo gioco non era utile alla squadra»
E così lo spostò al centro dell’attacco.
«Fu una scelta naturale. Con maggiori spazi, avrebbe sfruttato al meglio le sue qualità».<br>
Il fatto che mancasse un centravanti non c’entra nulla con la decisione di cambiare il ruolo a Paolo Rossi.
«Se si riferisce alla storia del povero Vitali (morì in un incidente d’auto l’anno dopo, nel 1977, ndr), allora conviene fare chiarezza».
Prego.
«Vitali è sempre stato un giocatore irrequieto. Aveva giocato con il Lanerossi l’anno prima, ma non era tra i confermati. Aveva superato la trentina, non aveva chiaro in mente cosa fare, non c’erano i presupposti per una permanenza nella rosa. Tuttavia mi chiese di potersi allenare con noi. No problem. Lo misi in camera con Faloppa, ma dopo due giorni era già sparito».
Torniamo a Paolo Rossi: da ala destra a centravanti e il mondo si colora di biancorosso.
«Con il 9 sulle spalle, all’esordio in un campionato di B molto selettivo, Paolo segnò senza fermarsi. E aveva appena vent’anni. Era bravissimo nel cogliere l’attimo, nello smarcarsi, nel dettare il passaggio. Io mi raccomandavo solo che non desse mai le spalle alla porta, ma che le stesse di fianco, così da sfruttare lo scatto e l’innato tempismo».
La squadra giocava per lui.
«Naturale: avevamo davanti uno che la metteva dentro sempre. Paolo unica punta, Cerilli e Filippi ai lati e Salvi dietro a rifornire. In difesa un libero moderno come l’ex mezzala Carrera, velocissimo e tecnicamente valido, coi terzini che salivano. Gran calcio».
Un modello che rispecchiava quello totale degli olandesi
«Con tutto il rispetto per Cruijff e compagni, io ho sempre giocato così, fin dai primi anni quando ho fatto l’allenatoregiocatore al Pavia e al Varese, fine Anni 50. Dicevo: dobbiamo andare a cercare la porta avversaria, dobbiamo farlo più spesso possibile e con tutti gli uomini. Sa quante volte ho sgridato il portiere, quando faceva i rinvii a casaccio?».
In quel Vicenza tutto filava alla perfezione anche nello spogliatoio?
«I risultati servono, danno forza alle tue idee. Detto questo, bisogna avere giocatori intelligenti, con voglia di mettersi al servizio della squadra. In quel Lanerossi era così. Non ho mai messo pressione ai giocatori, li ho affrancati dalla paura di sbagliare. Ho sempre cercato di tenere alto il morale, scherzavo con loro, raccontavo barzellette, facevo persino l’imitazione di Charlot».
Un quadro perfetto per una realtà di provincia.
«L’aver iniziato la stagione senza obiettivi prestigiosi ci ha agevolato. Poi, quando abbiamo iniziato a comandare la classifica e a vedere la promozione vicina, il braccino del tennista è venuto. Ma siamo stati bravi a rimanere umili e a non tradire le nostre idee».
In casa eravate imbattibili.
«Al Menti non passava nessuno. Lo stadio era stracolmo, 10mila abbonati. Venivano da tutta la provincia a vederci, c’erano pullman da Cento e Piacenza. Con la città si era creata una simbiosi perfetta. Il clima era elettrico. Ricordo la fatica per arrivare al campo con l’auto: c’era un mare di gente. Le bandiere dei tifosi tappavano la visuale».
Finisce il campionato e il Lanerossi Vicenza è in A. In cuor suo credeva che la favola sarebbe proseguita?
«Domanda difficile. Tutti eravamo d’accordo che anche contro la Juve, l’Inter e il Milan non avremmo cambiato gioco. Ci piaceva l’idea di farlo divertendoci, all’attacco, senza paure».
L’inizio del torneo di A fu da incubo, però.
«Nelle prime cinque giornate facemmo 3 punti. Nessuna vittoria, due sconfitte e tre pareggi. Alla sesta ci aspettava l’Atalanta a Bergamo».
Ebbe il timore di essere esonerato?
«Più che timore, era quasi certezza. Ma per fortuna dalla sesta giornata il vento cambiò, anche grazie a due importanti innesti al mercato di ottobre».
Chi arrivò?
«Il primo fu un ritorno, quello di Franco Cerilli che era stato ceduto al Monza in estate. Non si era ambientato, ogni lunedì tornava a Vicenza e mi implorava di riprenderlo. Non me lo feci ripetere. Quando era arrivato a Vicenza, nell’estate del 1976, era un giocatore con il morale sotto i tacchi, dato per finito a 23 anni».
A Milano gli avevano affibbiato l’etichetta dell’erede di Corso, un po’ troppo forse.
«Forse. Ma il sinistro era veramente d’oro. Il guaio era che all’Inter lo facevano giocare punta. Errore madornale. Non aveva il passo dell’attaccante, correvo più forte io. Lo impostai come ala destra. La stessa mossa che fece poi Liedholm con Bruno Conti».
Manca il secondo nome degli arrivi al mercato autunnale.
«Mario Guidetti, un mediano dinamico e dalla bella castagna di sinistro. Serviva uno che facesse legna a centrocampo, ma che fosse anche in grado di trovare la porta. La prima dimostrazione me la diede subito nella gara d’esordio con l’Atalanta: fece una doppietta».
Quella fu la svolta: da lì in poi nacque la vera leggenda del Real Vicenza.
«Dopo Bergamo mettemmo in fila altri dieci risultati utili. Da penultimi ci trovammo al secondo posto, a due punti dalla Juve. Paolo Rossi aveva preso le misure anche nel massimo campionato e timbrava costantemente. Si giocava davvero bene. Vicenza diventò la capitale del calcio».
Oltre ai nomi fatti, chi spiccava per le doti individuali?
« Sicuramente Roberto Filippi, un maratoneta instancabile. Questo qui era capace di correre per novanta minuti senza sosta. Il pressing lo faceva per tutti. Aveva il numero 11, i baffi spio-venti e i capelli lunghi. Un Gattuso più intelligente tatticamente e molto più dotato tecnicamente».
E gli altri?<
«Galli era un portiere affidabile, anche se lo sgridavo perché non doveva buttare via il pallone. A Carrera i movimenti da libero glieli ho insegnati io, per il resto era uno dei più forti centrali in circolazione. Lelj era molto bravo, sia come marcatore che come ala aggiunta, così come Callioni, il terzino sinistro. Prestanti, lo stopper, a fine stagione segnò 3 reti, in un’epoca in cui i colleghi non passavano mai la metà campo».
A proposito di centrocampo, di Salvi e Faloppa che mi dice?
«Salvi era un vero big, aveva una lunga esperienza in A. Anche lui, però, sembrava un giocatore finito dopo una vita alla Samp. Invece con noi ritrovò fiducia. Insieme a Cerilli era quello che più di tutti serviva palloni d’oro a Paolo Rossi. Giocatore intelligente e che poteva contare sull’appoggio di Faloppa, il grande capitano».
Era lui il leader della squadra?
«Non c’era un vero leader, erano veramente tutti sullo stesso piano. Si aiutavano a vicenda. Se proprio occorreva, ci pensavo io a difendere i ragazzi».
È successo?
«Sì, una volta. Dopo dieci risultati utili, perdemmo a San Siro con l’Inter. La Gazzetta ci massacrò. Aspettai il momento giusto per dire due paroline al giornalista. Lo affrontai, lo attaccai al muro dello spogliatoio. Tartagliava, lo feci tartagliare ancora di più».
Fa un po’ strano pensare a Gibì Fabbri arrabbiato.
«In effetti succedeva di rado. Un’altra volta mi capitò con il mio Paolino. Prima di una partita con la Roma, venne mogio mogio da me e mi disse. “Mister, oggi non va, non me la sento”. Gli strizzai un braccio e lo mandai in campo. Aveva solo bisogno di fiducia».
Alla fine fece 24 gol.
«Capocannoniere al primo colpo. Una grande soddisfazione. Così come enorme fu la gioia per il secondo posto finale. Un traguardo storico. Una neopromossa così in alto non si era mai vista. Dalla B eravamo finiti in Uefa».
Mai pensato di vincere lo scudetto?
«Sinceramente no. La modestia e il senso della realtà non ci hanno mai abbandonato. E poi la Juve era troppo più forte, va detto».
Tanto forte sì, ma non abbastanza da riprendersi Paolo Rossi, “vinto” alle buste da Farina.
«È una storia a sé. Io sapevo che Farina voleva mettere un miliardo e trecento milioni. Mi chiese cosa ne pensassi. Gli dissi che si poteva arrivare anche a un miliardo e mezzo, perché Paolo aveva margini di miglioramento. Ero in Argentina, al ristorante Cabana con alcuni giornalisti, tra cui Brera, Cucci e De Felice quando arrivò la notizia della valutazione di Rossi. Mi venne la pelle d’oca».
Quale fu il suo primo pensiero?
«Ne ebbi due, contrastanti: egoisticamente ero felice, poter contare ancora su di lui per il futuro. Allo stesso tempo mi dispiaceva perché meritava la grande squadra. Oltretutto per noi l’anno dopo fu orribile, con la retrocessione».
Già, come accadde?
«Furono ceduti Filippi e Lelj. Paolo Rossi stette fuori per un po’ dopo un infortunio patito in Coppa. Perdemmo Carrera per quasi tutta la stagione. Ci fu un tracollo psicologico nelle ultime partite e il finale di stagione non fu limpidissimo. Finì tutto, prospettive di carriera comprese».
In che senso?
«Dopo il secondo posto, mi cercarono alcune grandi. Venne da me Bigon, che avevo avuto alla Spal. Rivera mi voleva al Milan, Bigon mi chiese se fossi stato disponibile ad andarvi. Dissi di sì. A bloccare tutto fu Farina».
Che tipo era il presidente?
«Un furbacchione. Arrivava dappertutto, aveva amicizie e legami importanti. Mi convinse a rimanere a Vicenza, per poi liquidarmi non appena retrocessi. Meno male che arrivò l’Ascoli e mi tolsi qualche altra soddisfazione».
Si divisero anche le strade con Paolo Rossi.
«Era inevitabile. Paolo doveva rimanere in A. Finì al Perugia, anche se nella primavera del ‘79 ero riuscito a trovare un accordo con la Juve. Boniperti era intenzionato a darci Marocchino, Virdis e la comproprietà di Verza. Io chiamai Trapattoni e gli dissi che volevo anche Brio. Mi fu detto di sì».
E poi cosa accadde?
«Ne parlai con Farina, . Mi trattò malissimo, forse aveva già in mente altro».
Tratto da GS Aprile 2010                                                                                                                                    di Nicola Calzaretta

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