Il Mondiale 1982 per molti di noi è stato la cosa migliore dell'intera vita, un luogo dell'anima in cui rifugiarsi per scappare dalla mediocrità e dall'ipocrisia del presente. Ma l'esistenza di Enzo Bearzot è stata molto di più di quel mese spagnolo, dal fresco di Vigo al forno di Barcellona per finire in gloria al Bernabeu. Bearzot è stato un ottimo calciatore, fra Pro Gorizia, Inter, Catania e soprattutto Torino (in totale 251 partite in A), con una presenza in azzurro che gli ha riempito il cuore di orgoglio fino all'ultimo giorno. Un calciatore ma anche un ottimo studente, in un'epoca in cui chi giocava a calcio veniva considerato un ignorante dall'esterno e guardato con sospetto all'interno di un mondo che ignorante era veramente.
Da allenatore nasce nelle giovanili granata, poi è vice del grande Nereo Rocco in prima squadra, fa una breve esperienza in C nel Prato e finalmente approda in azzurro: sei anni nell'Under 23 prima affiancare, nel 1975, Fulvio Bernardini nella ricostruzione della Nazionale maggiore. Nel 1977 diventa c.t. unico e porta al Mondiale argentino dell'anno seguente (qualificazione ottenuta buttando fuori l'Inghilterra di Keegan, all'epoca forse il miglior giocatore del pianeta) una specie di Juventus-bis, con l'aggiunta dell'emergentissimo Paolo Rossi e di Antognoni, che per sei partite e mezzo (il mezzo mancante è il secondo tempo contro l'Olanda) gioca il miglior calcio mai visto in azzurro. Secondo chi ha potuto fare i confronti con i propri occhi, anche superiore a quello della squadra vinci-tutto di Pozzo.
Un quarto posto nell'Europeo casalingo, condizionato dal primo calcioscomesse e dall'assenza della sua stella (Rossi), e poi l'apoteosi del 1982. Ricca di significati sportivi, ovviamente, ma anche umani. In un'Italia molto più provinciale di quella di oggi (sembra incredibile, ma è esistita un'Italia più provinciale di quella di oggi), con i club quasi regolarmente eliminati nei primi turni delle coppe e uno straniero solo per squadra, quel successo assume un'importanza al di là di ogni immaginazione. Non è solo la classica vittoria del gruppo, di un allenatore che ha creduto prima negli uomini e poi nei giocatori, di una generazione di talenti, ma è l'uscita dall'atmosfera cupa degli anni Settanta e dal calcio in bianco e nero (inteso come televisione e come linguaggio, perché in quel 1982 ci sono sei juventini nella squadra titolare). Il 1982 segna davvero la fine di un'epoca e l'inizio di un'altra in cui si pensa in grande, al di là dei comportamenti discutibili dei singoli: un'onda lunga che è arrivata fino a noi, con personaggi meno onesti e integri moralmente di Enzo Bearzot. Che mai ha monetizzato il trionfo, affondando nel 1986 dopo la fusione non riuscita fra i resti dei campioni del mondo, emergenti (Vialli, De Napoli) giovani ed emersi della generazione di mezzo.
Poi un ruolo da ambasciatore, subito lasciato per non rubare lo stipendio alla Figc, incarichi onorifici (la presidenza del Settore Tecnico, per dirne uno) e una pensione da pensionato vero. Con poche interviste e il minimo possibile di nostalgia pubblica, seguendo le vite dei suoi ex ragazzi a volte con dolore ma sempre con partecipazione vera. Alla fine la sua lezione, come quella dei migliori genitori, è venuta dall'esempio e non da parole vuote. Mai ha scritto qualcosa di autobiografico, anche se ha di sicuro apprezzato 'Il romanzo del Vecio', di Gigi Garanzini, un libro-intervista che dà l'idea dello spessore del personaggio più che della genialità delle mosse tattiche durante le partite. Avrebbe odiato i santini e i coccodrilli che saranno scritti su di lui (il nostro non fa eccezione), ma questo non ci impedirà di legarlo per sempre ai migliori anni della nostra vita. E non perché ha vinto o ci ha fatto vincere. Come diceva quella famosa canzone, siam tutti figli di Bearzot.
Stefano Olivari
stefano@indiscreto.it
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