A Torino gli ultras si scatenano bruciando i seggiolini dello stadio
Delle Alpi. Delle Alpi? Sì, perché non stiamo parlando dei falò ormai tipici allo stadio Olimpico dopo le sconfitte interne della Juve, ma stiamo per tornare con la memoria al
febbraio 1999, quando Madama era nona in classifica e si avviava a chiudere un ciclo, quello di
Marcello Lippi, per iniziarne un altro, con Carlo Ancelotti.
Il tecnico di Viareggio diede le dimissioni dopo uno scivolone casalingo contro il
Parma per 4-2. Oggi, la situazione è per certi aspetti simile, non solo per i seggiolini in fumo: un campionato anonimo e una
rifondazione da cominciare (e anche nella stagione in corso il Parma ha espugnato Torino con quattro gol). Ma la grande differenza è ovviamente nella pancia: quella Juve là l’aveva pienissima, dopo tre scudetti e una Champions League; questa qua invece brontola per un digiuno che dura ormai da cinque anni (o otto, scegliete voi se scegliere il verdetto del campo o l’albo d’oro). Un’altra differenza è che Delneri non ha nessuna intenzione di dimettersi dall’incarico, nonostante aleggi su di lui proprio lo spettro di Marcello Lippi.
La Juve che perse contro il Parma in quel febbraio ’99 era in una fase di transizione: in quella gara l’attacco era composto da Fonseca e Esnaider, quest'ultimo sostituito da un
Henry in Piemonte solo di passaggio. Nei ducali c’erano invece tre pilastri della Juve che si sarebbe costruita qualche anno dopo: Buffon, Cannavaro e Thuram.
Ma leggiamo cosa si diceva sul Guerino, commentando le dimissioni dell’allenatore e le prospettive della squadra. Ecco l’editoriale del
direttore Giuseppe Castagnoli intitolato “
Non può pagare solo Marcello”.
“Non siamo nella testa di Marcello Lippi ma, conoscendone la fierezza e il giusto orgoglio, crediamo che la decisione di mollare l’abbia presa nel momento in cui Montero, sciaguratamente, ha regalato al Parma un gol servito su un piatto d’argento. Come: proprio Montero, simbolo della Juve aggressiva e mai doma, balbettava come un agnellino impaurito? Se anche lui si arrendeva, non c’era più niente da fare. Quel ridicolo colpo di testa dell’ex pugnace uruguagio era il simbolo di una squadra che non c’era più, che non aveva le motivazioni giuste, che non sapeva neppure sfruttare il vantaggio procurato dal bellissimo gol di Tacchinardi. Era il segnale che anche la squadra si era arresa e che era quindi caduto l’ultimo baluardo su cui Lippi poteva contare nel suo legittimo desiderio di rendere plausibile una stagione disgraziata. Sì, disgraziata per l’infortunio di Del Piero; per le scelte societarie dettate da una colpevole presunzione alimentata dai successi conquistati spendendo il minimo e (qui sta la vera responsabilità di Lippi) avallata anche dal tecnico; per la gestione assurda di un divorzio che tutti conoscevano ma che ha scatenato veleni fino a far saltare i nervi. Può essere, come alcuni osservano con professionale distacco, che il nostro calcio non sia tanto maturo da poter digerire cambiamenti e rivoluzioni in corsa che in Inghilterra, ad esempio, suscitano più che altro curiosità. Ma è anche vero che il rapporto tra Lippi e la società si era già rotto nel momento in cui il tecnico comunicò che questo sarebbe stato l’ultimo anno in bianconero. Troppi sussurri, troppi veleni, troppa tensione al di là dei riconoscimenti di facciata alla serietà e alla correttezza di chi ha conquistato con la Juve, scudetti, Coppe e Supercoppe. Tanto da legittimare il dubbio che sia stata la prossima destinazione di Lippi (l’Inter, eterna rivale) a suscitare reazioni che, se possono essere comprese quando vengono dai tifosi più arrabbiati, non sono giustificabili se si insinuano anche soltanto nell’inconscio di chi dirige una società e conosce chi gli sta davanti. In questa situazione, a Lippi non restava che la squadra. Quando l’ha vista squagliarsi davanti al Parma, quando ha visto Montero regalare un gol quando in altri tempi avrebbe eretto barricate pur di non far passare l’avversario, ha capito che anche l’ultima diga era franata. Il dado era tratto. Almeno per lui, non per la Juve che ora si trova a pagare il prezzo della lunga guerra dei nervi e che rischia di rovesciare la tensione anche su Ancelotti che avrebbe certo gradito raccogliere solo a giugno un testimone meno scottante. Lippi ha tolto il disturbo, ma altri dovranno seguirlo per come si è gonfiata l’odissea juventina. Gli anni orribili non sono originati soltanto dagli eventi contrari, ma anche dall’incapacità di saperli affrontare. Ecco, la Juve ha mostrato un’incredibile debolezza quando sembrava che neppure i macigni potessero scalfirla. Né può consolare che nelle stesse ambasce si trovi il Grande Nemico, quello Zeman che l’estate scorsa scaricò le sue cannonate su una Signora ancora ben vestita e apparentemente in salute. Ora si trovano entrambi in rianimazione, sconfitti dalla loro presunzione”.
Giovanni Del Bianco
delbianco.giovanni@gmail.com