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Il mito maledetto di Mourinho

Redazione

20 agosto 2011

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Avere la fortuna (grazie a un amico che vive in Catalogna) di poter assistere dal vivo a Barcellona-Real mi ha regalato un’esperienza indimenticabile sotto molti aspetti. Calcistico, ed è inutile che stia a spiegarvi perché: sono ancora qui che mi sogno di notte certi gol e certe triangolazioni,e  non ho mai dormito meglio. Ma anche massmediologico: sono convinto di avere assistito, l’altra sera, alla definitiva nascita di un mito. Ma non di un mito calcistico. Un mito pop: Mourinho. Il mito pop è un mito che si alimenta di popolarità. Pop, appunto. E la popolarità non è apprezzamento, è anche odio: la popolarità è la riconoscibilità, l’essere la tua faccia, la tua voce, le tue gesta, associato a qualcosa di conosciuto a tutti, anche di negativo chi se ne frega (bene o male, purchè se ne parli, diceva il papà dei miti pop, Oscar Wilde).  Come Berlusconi, Bobo Vieri, Maradona, Madonna, Lady Gaga, Briatore, Beckham, Amy Winehouse, per dirne alcuni. Di tutti costoro tutto, nel bene e nel male, alimenta il mito, la popolarità. Anzi, è male è meglio. Perché diventi un idolo di chi ama la trasgressione, magari più con le parole che con i fatti, di chi è stufo di ipocrisia e falsa educazione e apprezza chi è schietto (confondendo magari la schiettezza con la volgarità). Per entrare nella categoria “mito pop” il talento non serve. Cioè, almeno un pochino sì, di certo, perché anzi è quello che ti porta a essere famoso inizialmente. Tutti gli esempi di cui sopra hanno saputo avere successo nel proprio campo. Però, una volta avuto il talento, lo hanno saputo calpestare, maledire, quasi far dimenticare, facendo parlare di sé per altro: trasgressioni nella vita privata o pubblica, droga, look deliranti, alcool, nottate in discoteca, arresti, tette al vento, orge, corna e scopate assortite, dichiarazioni volgari e choccanti, esibizionismi di ricchezze, risse, gossip, varie ed eventuali (vere o false è lo stesso). Tutte cose che ti valgono copertine di rotocalchi, servizi su Studio aperto, cliccate su Internet (anche i siti serissimi parlano di queste cose). E di conseguenza commenti sui blog, dichiarazioni di colleghi, spontanee o sollecitate in interviste, polemiche, articoli finto-scandalizzati di giornalisti in realtà felicissimi, toccatine di gomito. Da un mito pop alla fine ti aspetti solo che continui a farti divertire con le sue vicende che sembrano quasi barzellette, con la sua vita trasformata in caricatura, con il suo spingere i limiti sempre più in là, non certo con il suo lavoro, che invece gli fa perdere tempo. E poi, se spreca il suo talento meglio, fa ancora più maudit.Mou era per me già entrato in questa categoria da tempo, fin dai tempi italiani di zero tituli, non sono un pirla, insulti a questo, attacchi a quello. In Spagna si è consacrato con perle come accusare il Barcellona di vincere perché ha come sponsor l’Unicef (si sa che i bambini impietosiscono gli arbitri), come la serie di porquè che è diventata il grido da stadio dei tifosi del Barça e – ultimo atto - il dito nell’occhio a Tito Vilanova, con l’ulteriore aggravante del successivo giochino alla Emilio Fede di storpiarne il nome in Pito (che in spagnolo vuol dire cazzo, scusate il francesismo). Tutti gesti da mito pop: professionalmente e umanamente autolesionisti a livelli quasi suicidi, ma appunto capaci di aumentare la popolarità del soggetto, di trasformarlo in quello che può fare o dire qualunque cosa in qualunque momento. Ormai che sia un allenatore di calcio è un dettaglio: è un mito. E in questo ha ragione Tommaso Pellizzari – suo noto ultrà – che su Corriere.it nota due cose: tutto questo rischia di fare passare in secondo piano che è un bravo allenatore e non è vero che è un ottimo comunicatore, anzi è pessimo. Ma i miti pop non sanno necessariamente comunicare bene, cioè non sanno comunicare quello che vogliono comunicare, anzi spesso sono miti pop loro malgrado. Forse (forse) Mou vorrebbe tornare a essere solo un allenatore, ma - come Charlot nella famosa scena di Tempi moderni - è restato prigioniero della macchina che lui stesso ha avviato. Anche perché  a guastargli i progetti Mou ha trovato in Spagna una categoria giornalistica riluttante a esserne complice, a rilanciarne in maniera corriva e finto-scandalizzata le sparate, le gesta e le provocazioni. Perché in questo aveva ragione, ai tempi: la prostituzione intellettuale dei giornalisti italiani. Sorvolando sulla volgarità estrema dell’espressione, il concetto era anche giusto. Si era però dimenticato di dire, Mou, che di questa prostituzione lui era l’utilizzatore finale (per dirla come l’avvocato Ghedini), perché qualunque attacco alla categoria giornalistica veniva dai giornalisti stessi assorbito con un misto di deferenza, masochismo e ghigno complice se non tifoso. Per questo – solo per questo, non ho addentellati ad Appiano Gentile né tantomeno a Madrid, vado a sensazione – sono convinto che il mito pop l’anno prossimo tornerà dove è diventato un mito pop (e del calcio), dove è riverito da giocatori, dirigenti e giornalisti. Lasciando una città il cui quotidiano principale, El Pais, dopo l’episodio del dito nell’occhio e della rissa di venerdì notte, ha scritto: «Florentino Perez deve decidere se il Real Madrid è il Real Madrid o una squadra camorristica». In Italia si sarebbe mai trovato (o si troverà mai) un quotidiano capace di scriverlo? Livio Balestri telecommando@hotmail.it

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