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Hanno ancora senso le nazionali?

Redazione

5 settembre 2011

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Il calcio, anzi il mondo è cambiato. La Francia manda in campo giocatori nati in Africa. L’Italia naturalizza sudamericani. La Germania turchi e polacchi. E così via. Ma non è questo il motivo collegato alla domanda iniziale. Non è un discorso nazionalistico, questo o – peggio ancora – razzista. Il Mondo è cambiato, dicevamo. Banalmente, viviamo in una nazione, l’Italia, che fa parte di una realtà più grande di lei: la comunità Europea, una vera e propria nazionale federale nella quale le persone nate al suo interno si spostano da un paese all’altro liberamente, per lavoro o solo per piacere. Se un calciatore “straniero” gioca in una determinata nazione per un minimo di anni allora quella nazione può schierare quel calciatore nella sua squadra di calcio. Quella nazionale. E’ un concetto fin troppo semplice. A cui nessuno da più importanza. E allora, stando così le cose, la vera domanda da porgersi è: cosa sono diventate le nazionali? Prima di dare una risposta, vediamo cosa sono.Sono una squadra di calcio composta da calciatori professionisti nati (o militanti da un certo numero di anni in quella nazione) che si ritrovano tutti insieme in determinati periodi della stagione per disputare partite amichevoli o partite di qualificazione per competizioni continentali o mondiali che si disputano una volta ogni 4 anni in un intervallo di tempo brevissimo (1 mese e qualche giorno). Ora: questi giocatori non sono stipendiati dalle federazioni nazionali. Per ciò  cosa sono: volontari, militari? Prestano la loro arte, il loro lavoro, per il bene della nazione? Per un educazione nazionalistica ricevuta dai propri genitori, da quella nazione stessa, dalla storia? Manco fossero veramente militari, appunto. Tutto questo che senso ha? Far emergere un pericoloso spirito nazionalistico per poter poi dire: noi italiani siamo più “forti” di voi francesi o di voi spagnoli? Ma non eravamo tutti una grande famiglia noi italiani e noi francesi e noi spagnoli. Quanti italiani lavorano liberamente in Francia e sono integrati in quella cultura. O in Inghilterra e perfino in Sudamerica? Ha ancora senso essere nazionalistici? Il principio di base dell’Unione europea non è quello di eliminare i limiti territoriali, culturali, religiosi, etnici tra le nazioni che ne fanno parte, rispettando comunque quelle diversità? I calciatori sono lavoratori delle squadre di club, non di quelle nazionali. Altro punto fondamentale. Quante volte l’azienda che gli paga lo stipendio ha dovuto rinunciare a un suo dipendente perché questo si è infortunato in una partita con la nazionale? Chi risarcisce il club?Qualcuno dirà: la nazionale è sacra. E’ l’Italia. E’ la nostra terra. La nostra patria. Ma in un mondo globalizzato dove un mezzo potente come internet ha azzerato le distanze e i confini, ha ancora senso – ripeto – parlare di patria e di nazione. Perché un tifoso dell’Inter che durante l’anno tifa contro e odia (in senso buono ovviamente) un Gattuso o un Nesta o un Abate, poi – solo perché uno di questo indossa la maglia dell’Italia – deve tifare per lui. Un tifoso della Lazio tiferà mai veramente per De Rossi azzurro o per Totti. E un tifoso della Juve sentirà veramente suo un gol di Pazzini? Inoltre: un tempo, venti, trenta anni fa, le nazionali di calcio erano il “prodotto” calcistico di quella determinata nazione. Rappresentava i valori di quel campionato. L’Italia di Rivera, la Germania di Beckenbauer, l’Inghilterra di Charlton, il Brasile di Pelè, il Portogallo di Eusebio.  Questi calciatori potevano ammirare e conoscere solo ai mondiali o agli europei. Non esisteva l’informazione che c’è oggi, dove un gol segnato a Rio De Janeiro, a Londra o a Monaco di baviera è rivisto centinaia di volte nello stesso momento in cui viene segnato. Allora si che avevano un senso le nazionali. Ma ora, a chi interessa vedere nel Brasile le gesta di Pato o Robinho, fuoriclasse che siamo abituati ad ammirare per tutto l’anno? Che senso ha rischiare infortuni, disputare partite in isole lontane, per qualificarsi ad una competizione che si svolge ogni quattro anni e che dura non più di un mese. Con squadre composte da calciatori provenienti da nazioni diversi, con squadre che non hanno un modulo o atteggimaneto tattico ben impostato, che si basano sul lampo del fuoriclasse più che dell’allenatore, in quanto hanno davvero troppo poco tempo per trovare una propria identità tattica. A livello spettacolare c’è una differenza enorme tra una semi finale di Champions League e una del Mondiale. Eppure per molti vincere il mondiale è il fine ultimo della propria carriera calcistica. Brasile, Spagna, Italia, Germania a qualcuno forse ancora interesserà chi porta a casa il maggior numero di coppe del mondo. Come se davvero quelli fossero i valori espressi da quella nazione, e poi, anche se lo fossero, cosa può importare veramente. Non stiamo mica giocando a Risiko. O no? Francesco Aquino

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