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Redazione

23 ottobre 2011

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(...) Marco Simoncelli detto Sic era ancora un bambino, è sempre stato un bambino. Felice di poter scatenare la propria passione, una passione per i piloti senza macchia e senza paura di epoche lontane. Così anni Settanta, vintage nell’aspetto e nel carattere, giocherellone, sempre sorridente. E disarmante nei modi: «Tutti mi dicono che sono naif, ma io non so mica che cosa vuol dire naif». Per questo probabilmente non capiva perché i rivali, Jorge Lorenzo in testa, ce l’avessero tanto con lui. Lo consideravano pericoloso, ironia della sorte, tanto che all’acme delle polemiche Sic dovette presentarsi sul circuito di Barcellona scortato da guardie del corpo, minacciato di morte dai tifosi catalani. Simoncelli in quell’occasione si sentì coinvolto in qualcosa di più grande di lui: con due occhi spalancati e spauriti si chiedeva che cosa avesse fatto di così grave per dover viaggiare sotto scorta. Lui voleva solo correre, e se qualcuno non aveva il suo stesso coraggio, affari suoi. I capelli, quei capelli che lo «costringevano» a indossare un casco più grande di una taglia, erano il suo marchio di fabbrica, Napo Orso Capo in un mondo di polli da batteria. Lui era così, incontrollabile come i suoi riccioli, così appassionato degli anni Sessanta e Settanta da festeggiare una vittoria indossando una maglietta con l’immagine di Jimi Hendrix, altro eroe controcorrente. E altro eroe, purtroppo, scomparso nel fiore degli anni. Ma Simoncelli non era soltanto un’icona, un’immagine senza sostanza. Non è un caso che fosse considerato l’erede di Valentino Rossi. Perché del Dottore aveva sì l’istrionismo che l’aveva fatto diventare un personaggio, ma anche il talento in sella a una moto. Il titolo mondiale della 250 conquistato nel 2008, in sella alla Gilera – moto italiana pilota italiano – è stato il suo punto più alto, ma è nella MotoGp che Sic è diventato protagonista, tanto da sciogliere persino il cuore di ghiaccio di Shuhei Nakamoto, capo supremo della Honda, che su di lui puntava per farne l’uomo immagine della casa giapponese. E se non sei un ottimo pilota, è difficile che Nakamoto ti prenda in considerazione. Di Valentino aveva anche l’amicizia, capace di essere superiore anche alla rivalità in pista. E, dramma nel dramma, proprio Valentino lo ha investito insieme con Edwards su quella maledetta curva di Sepang. (...) Articolo di Roberto De Ponti pubblicato su Corriere.it Link all'articolo completo

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