Smaltita la sbornia della meritata promozione, per il Torino è già domani. Tante bandiere hanno sventolato nella festa granata (vedi foto). Coreografia da brividi, gioia liberatoria e poi tutti ebbri di birra e di felicità in Piazza San Carlo. Ma dall'unica, autentica bandiera in campo, quell'Angelo Ogbonna che il vivaio di casa ha proiettato verso l'Azzurro nazionale, arriva subito un messaggio sibillino destinato a raffreddare gli entusiasmi: «È stato bello, sì. Devo tanto a Ventura. Solo lui mi ha trattenuto qui, è l'unica ragione per cui sono rimasto. Ma sono giovane e non posso sposare il Toro a vita. Ora penso a inseguire l'Europeo». Ecco il problema del Torino in vista del ritorno fra gli eletti. L'identità perduta. Quella che un tempo (Anni 80-90, mica un secolo fa) faceva sì che dal settore giovanile amministrato dal guru Sergio Vatta, maestro di vita ancor prima che di calcio, uscissero talenti pronti a restare e a lottare, certi che quella maglia intrisa di storia gloriosa, e al tempo stesso dolorosa, rappresentasse il miglior investimento possibile per il loro futuro. Erano i tempi dell'invincibile Primavera di Francini, Benedetti, Cravero, Comi, Osio, Lerda, Scienza, Fuser, Lentini, Venturin, Bresciani, Zago, Benny Carbone, Dino Baggio, Cois, Bobo Vieri. Solide radici che affondavano nel terreno del mitico Filadelfia e che lastricavano di certezze il cammino della prima squadra. Bandiere in mano a una curva che trovava un motivo di orgoglio nella possibilità di identificarsi con il campione cresciuto sotto casa. Il Toro investiva, formava, seminava e raccoglieva. Buoni calciatori nel breve termine, ottimi affari nel medio-lungo periodo, quando esaurita l'esperienza in granata e saldato il debito di riconoscenza i figli prediletti potevano pensare di incamminarsi altrove da soli. Ma soprattutto il Toro sapeva specchiarsi in una condivisa filosofia societaria, in un'articolata gestione tecnica, in una precisa identità di squadra. A Urbano Cairo, se vorrà davvero edificare la ritrovata Serie A su solide fondamenta, il compito di riaffermare questa unicità granata. Che sarebbe ancor più apprezzabile oggi, in epoca di giocatori senza fissa dimora. Straordinariamente più ricchi, ma anche straordinariamente più fragili. Orfani di quell'imprinting caratteriale che la Scuola-Torino infondeva, occupandosi dei suoi giovani calciatori dalla testa ai piedi. Trattenere Ogbonna (con il dovuto incentivo economico) e rafforzare l'impegno nel settore giovanile, significherebbe gettare le basi per una formazione che incarni davvero il cuore Toro.
Gianluca Grassi