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Non possiamo fare Boateng

Redazione

7 gennaio 2013

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Il Milan che ha lasciato il campo dopo gli insulti razzisti a Boateng (e non solo a Boateng) durante l'amichevole di Busto Arsizio con la Pro Patria ha ispirato la solita reazione stereotipata, da cani di Pavlov. E via con magliette, proclami, riflessioni sul razzismo nel calcio (mentre al supermercato o sul lavoro non esiste, notoriamente), autoflagellazioni prive del minimo senso delle proporzioni: venti cretini valgono più di cinquemila persone che guardano la partita tranquille? Senza contare il fatto che gli stessi 'buu' hanno valore diverso a seconda della tifoseria: si è parlato poco di quelli laziali a Ibarbo, si sono messi in dubbio quelli interisti a Zoro, si sono sminuiti quelli juventini a Balotelli. Con numeri decisamente superiori a quelli dei tifosi della Pro Patria. La cosa più sensata l'ha detta, come spesso accade, Blatter. Che avrà tanti difetti ma di sicuro ha una visione globale dei problemi, anche se nelle singole nazioni (compresa la nostra) gli vengono riservate parole che se riservate all'ultimo tirapiedi farebbero scattare la solita querela. In sostanza Blatter ha detto che non si può procedere in ordine sparso, lasciando all'iniziativa delle singole squadre o dei singoli giocatori la decisione di interrompere una partita. Ci vogliono (e del resto ci sono già) sanzioni durissime e la possibilità di interrompere gli incontri a discrezione dell'arbitro. A livello Fifa e Uefa si parla espressamente di razzismo, a livello Figc no, ma l'arbitro ha comunque la facoltà di mandare le squadre negli spogliatoi se ritiene che non ci siano le condizioni per giocare. E gli insulti razzisti ad alcuni dei giocatori in campo rientrano senz'altro in questa casistica, ben più della pioggia o di un riflettore saltato. E veniamo al punto. Che è quello delle singole sensibilità. Perché il 'buu' può fare male almeno quanto l'insulto sistematico e premeditato, anche a gente della stessa razza di chi insulta. Si sono ascoltati cori inneggianti a tragedie epocali (Heysel. Superga, eccetera) e fatti personali (madri morte, in un caso ci è capitato di sentir ricordare anche un figlio deceduto prematuramente, divorzi, problemi giudiziari di familiari o amici), con gli uomini di calcio a ricordare che è sempre stato così e che in fondo allo stadio ci si deve sfogare. Senza aprire poi il capitolo sulle forze dell'ordine, non ci sembra che le strade siano piene di persone che urlano 'mestiere di merda' a carabinieri e poliziotti, mentre allo stadio tutto questo avviene nel novanta per cento delle occasioni. Gli scenari sono quindi due, volendo metterla sul pratico (si possono sequestrare gli striscioni ma non le corde vocali): o si impedisce qualsiasi manifestazione di dissenso oppure si accetta tutto. Se tutti i calciatori che si sentono feriti da un insulto facessero come Boateng potremmo dedicarci direttamente alla Playstation.

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