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Un anti-personaggio. Un ragazzo umile, lavoratore, serio. Piedi non eccelsi, ma tanta sostanza. Centrocampista instancabile sulla fascia e arrivato in Serie A a trent'anni. Questo era Paolo Ponzo, che ci ha lasciati ieri mattina, all'età di 41 anni, per un malore durante la corsa Maremontana, nella sua Liguria. Una corsa maledetta per chi - proprio correndo - si era ritagliato una discreta carriera in provincia: a Cesena, Reggio Emilia, Modena, La Spezia e Savona le tappe più significative. Ai tempi del Modena, appena promosso in Serie A, il Guerino era andato ad incontrarlo. Vi proponiamo l'intervista che gli fece nell'ottobre 2002, Matteo Marani, ai tempi inviato del Guerin. Tanti i temi toccati: dai figli a De André, dagli ingaggi dei calciatori al sogno di fare il contadino, dalla vita nello spogliatoio ai libri.
L'ISOLA DI PONZO
Non conosce le Veline, non ha la Ferrari e le vacanze, in epoca di Billionaire, le trascorre lungo i sentieri che dalla Liguria si fanno Piemonte. Sveglia alle sette, un sacco in spalla come da ragazzo, e via a faticare. Anche in ferie non riesce a farne a meno. Il sudore è la sua condanna, il suo orgoglio. Più il secondo, fa capire con gli occhi che da piccoli si fanno via via minuscoli mentre parla. Paolo “muratore” Ponzo è tutto qui. E non è poco. Con gli Inzaghi e i Vieri, ospiti abituali di prima serata e di prima pagina, non ha punti d’incontro, né fisici, né simbolici. Solo la professione riportata sulla carta d’identità. anche la sua recita da calciatore. Rango e stipendi non sono comparabili, un ventesimo rispetto ai colleghi famosi. «L’intero Modena guadagna quanto un unico giocatore della Roma» sintetizza lui. Eppure all’Olimpico hanno vinto il piccolo Ponzo e l’altro debuttante in A, De Biasi. «Il nostro campionato è iniziato dopo l’1-0 della Roma, successivo al debutto catastrofico con il Milan. Potevamo sederci e invece abbiamo iniziato in quel momento a giocare, a ritrovarci». Era quasi inevitabile per una squadra che è lo specchio del suo esterno destro. Sangue, ardore e lacrime. «Ci sono tanti Ponzo in questo Modena e un solo Milanetto» giura. Basso e curvo, non esattamente l’archetipo di atleta greco, ha il corpo imperfetto che divenne sublime grazia in Garrincha. «Il gobbetto della fascia. Non mi offendo, capisco che si diventi personaggio anche per questo, attraverso l’accentuazione di un difetto. Anzi, chiamiamola caratteristica, preferisco. L’altro giorno ho letto la cronaca di un giornale: “Ponzo si ingobbisce sulla fascia”. Voleva dire che mi stavo impegnando». Partiamo dall’inizio. «Ho il carattere di mio papà Modesto. Modesto di nome e di fatto. Un piemontese duro, di quelli di un tempo. Il nonno non l’ha nemmeno conosciuto, morto in guerra. Fino a 18 anni in collegio, quindi operaio per 30 anni alla Montedison. Ho capito da lui il rispetto per chi lavora in fabbrica e la conquista quotidiana del pane». Quanti tuoi colleghi comprendono il senso della frase “andate a lavorare”? «Non lo so, chi sono io per giudicare? Come Fabrizio De André odio i giudizi, soprattutto odio i giudici. L’ipocrisia che lui denuncia nel Testamento di Tito. Quella della Chiesa e della nostra società. C’è solo una cosa che non sopporto nel gioco del calcio: la simulazione». Intendi l’inganno? «Non riguarda i rigori dati o non dati, che dal campo sono sempre diversi rispetto a quelli che vedi poi alla sera in tv. Prendi quello su Sculli all’Olimpico: a me pareva netto. Non sopporto chi cade a terra senza un motivo reale e magari si contorce con gli spasmi. Amo il calcio inglese perché nessuno starebbe a terra due ore senza una buona giustificazione». Ma i calciatori capiscono la fortuna che hanno? «Qualcuno purtroppo non la coglie fino in fondo. Soffro quando sento dire: “O mio Dio, c’è l’allenamento” oppure “Sono stanco, vorrei andare a casa presto”. Io esco prima alla mattina proprio per arrivare in anticipo al campo. Mi piace girare, respirare l’aria dello spogliatoio». Che non è solo un luogo fisico, vero? «Non serve solo a cambiarsi d’abito, questo no. Lo spogliatoio vuol dire trasmissione d’idee, capisci le storie umane e le dinamiche della vita. È una famiglia: personalità, caratteri, amicizie enormi». La tua con Cevoli. «Formiamo l’articolo “iL”: lui alto e io basso. Ma abbiamo una visione in comune della vita e una storia professionale che ci lega. Lui è arrivato in A persino più tardi di me, 34 anni contro i 30 miei. Alla fine della scorsa stagione, abbiamo scalato in bici il Cimone: 100 chilometri a pedalare. Era il minimo per due come noi che giungono in Serie A». Anche nella felicità non può mancare la fatica? «Io ho una tecnica da 6,5 e una determinazione da 9. So che è la mia forza e devo puntare su quella. Dice De Biasi che con i piedi sembro più scarso di quello che in realtà sono. Non lo so. Un giorno un altro allenatore mi disse che avevo due piedi da 5, ma aggiunse che si trattava di una grossa fortuna, perché è meglio avere due piedi da 5 che uno da 8 e uno da 2». Volere è potere? «Sicuramente, è la determinazione di cui parlavo. Ho iniziato a giocare sapendo che l’obiettivo era farne la mia professione. Arrivai negli Allievi del Vado Ligure e mi sentivo come se fossi in Nazionale. Oggi i giovani che incontro in Serie A hanno meno entusiasmo di quello che avevo io in Interregionale». Poi il Genoa. «Un campo di ghiaia, solo l’ultimo anno feci gli allenamenti al Pio XII con la prima squadra. Lì ho capito che la Serie A non è una cosa per tutti». E per chi è? «Ci vuole talento, ma a volte conta molto la fortuna. Devi fare bene quando è il momento decisivo. Poi possono aiutarti certe conoscenze, magari essere uscito dal settore giovanile di un grande club. È una frase fatta, ma posso dire du aver fatto carriera con le mie gambe». Cosa hai pensato quando nel giugno scorso, hai capito che Ponzo avrebbe sfidato Del Piero e Maldini? «Il momento più bello è stato quando, in campo, ci siamo abbracciati per dieci minuti tra noi compagni. È stato commovente. Ma l’emozione più grande l’ho provata sulla tomba di Gigi Montagnani, il nostro vecchio presidente. Ci siamo guardati e contati: eravamo gli stessi dieci uomini che due anni prima iniziarono l’avventura dalla Serie C, più il mister, più il Dg Tosi». Qual è la regola gialloblù? «Il rispetto, obbligatorio per chiunque arrivi. Da noi non si urla, non sono permessi atteggiamenti da star. Poi c’è un fenomeno, uno che con il suo carisma si imponeva anche all’Inter e alla Lazio. Parlo di Ballotta». Lo vedi allenatore? «No, lo vedo contadino. È una passione di entrambi». Hai chiamato tuo figlio Giordi, come una canzone di De André. Perché? «Ho amato e amo le sue canzoni, che a conti fatti sono poesie. C’è una frase cui ripenso spesso e che voglio collegare alla mia visione di calcio: “Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori”. Lo applicherei anche alla vita. Quanti lati negativi ha il calcio? «Pochissimi, molti sono invece gli aspetti belli. Vivi in modo libero, l’importante è non farsi prendere dalle esasperazioni e da tutte le polemiche su moviole, arbitri, potere. Io quando gioco contro Del Piero non penso che lui è più famoso di me. Io faccio la mia parte, anche perché se non dai il massimo la figuraccia la fai pure con l’Albinoleffe. Garantito». Qualcuno in campo ti ha trattato da matricola? «Sì, ho trovato qualche rompiscatole. Ma non gli ho dato peso, avanti per la mia strada». Dopo il calcio cosa ci sarà nella vita di Ponzo? «Forse ancora calcio, perché questo è un ambiente che mi piace. Veramente non ho fatto progetti. Da quando lo scorso maggio è nato il mio secondo figlio, Gioele, vivo ancora di più alla giornata. Veder crescere lui e Giordi mi ha fatto tornare bambino. Sto accanto a loro, li respiro. Come dice mia moglie, tra le fortune del calciatore c’è quella di poter vivere i propri bambini». Batistuta guadagna 12 miliardi l’anno. «È un collega più bravo di me, non ho altro da dire. Leggo che la crisi del calcio sarebbe colpa dei giocatori. Non credo proprio: si vede che qualcuno quei soldi glieli ha dati. Facciamo l’esempio che domani il Milan mi offra 10 miliardi a stagione, secondo te accetterei oppure no?» Okay, è chiaro. «Non è neppure vero che quelli delle grandi squadre siano necessariamente giocatori montati. Uno come Tommasi mi piace moltissimo: si impegna per gli altri, si spende a favore di chi ha più bisogno». Anche tu, diciamolo. «Ho lavorato nel volontariato nel periodo di Cesena e poi ho fatto un libro il cui ricavato è andato in beneficienza». Copie vendute? «Duemila». Un futuro da scrittore? «Mi piacerebbe, ma avrei bisogno di una buona spalla. Scrivere è più dura che stare sulla fascia. Diciamo che per ora mi accontento di essere un bravo lettore: saggistica, anche storica, poi narrativa sudamericana: Sepulveda e Coelho. Adoro comprare e ragalare libri». In quali momenti leggi? «Nei ritiri con la squadra. I giovani stanno lì con la play station, ore e ore a rimbecillirsi. Io detesto il computer, amo ancora carta e inchiostro. E allora mi metto a leggere il Corano, la Bibbia, per cercare di capire di più». C’è spazio per un’ultima cosa da dire. A te la scelta. «Voglio mandare un saluto a Francesco Bertolotti. Era il più bravo tra tutti noi del Modena che partimmo dalla C e se viviamo oggi questi giorni di A è anche merito suo. Scrivilo: è un ragazzo intelligentissimo». (dal Guerin Sportivo 41/2002)
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