Antonio Conte ha dimostrato una volta di più che l'allenatore, a qualsiasi livello, non è un semplice distributore di maglie e dispensatore di saggezza da bar. Nel ventinovesimo scudetto della Juventus, il secondo di Conte in panchina, la mitica 'mano dell'allenatore' si è vista anche più che in quello della stagione scorsa. Prima di tutto perché la squadra è rimasta sostanzialmente la stessa. E se i fuoriclasse (Buffon, Pirlo e stop, se non vogliamo inflazionare la definizione) nascono e rimangono motivati, non sempre si può dire la stessa cosa della classe media e soprattutto dei gregari. Invece è proprio dal fondo della rosa che Conte ha saputo nei pochi momenti difficili della stagione tirare fuori quelle soluzioni che a tre giornate dalla fine hanno dato lo scudetto con un vantaggio in doppia cifra su un Napoli che dal punto di vista dei numeri è stato superiore al Napoli del'anno scorso. Bisogna anche dire che prendendo in considerazione tutti i giocatori, Mazzarri non aveva materiale umano inferiore a quello a disposizione di Conte, con il Milan in versione Balotelli (quindi da gennaio) pochissimo distante: due squadre che mai hanno avuto la continuità di quella bianconera, nemmeno all'interno della stessa partita. Il secondo motivo per cui questo scudetto di Conte vale più del primo risiede nell'impegno Champions. Non solo fisico e logistico, ma psicologico. Mettendosi addosso da soli una pressione esagerata, come la vittoria in Champions fosse un qualcosa di dovuto. Quando per vincerla il Chelsea ci ha messo quasi dieci anni di investimenti incredibili (conquistandola con una delle sue peggiori versioni, oltretutto) e l'Inter quindici (trovandola solo dopo avere azzeccato l'allenatore). Con il Real Madrid che ci va solo vicino da dieci anni nonostante i regali immobiliari, il giustamente esaltato Bayern che manca all'appello dalla vittoria ai rigori sul Valencia di Cuper (San Siro 2001), l'inimitabile per continuità gestionale Manchester United di Ferguson ne ha vinte due in un quarto di secolo grazie ai 'super-sub' del 1999 e alla scivolata di John Terry nel 2008. Come dire: puoi spendere l'impossibile e rimanere per anni in zona quarti di finale, ma in Europa bisogna mettere in conto anche di non vincere quasi mai, dal momento che esistono gli avversari. In altre parole, non condividiamo tutti i discorsi e gli editoriali del genere 'Adesso Conte deve vincere in Europa'. Può senz'altro farlo, anche con questa identica squadra (ci è capitato in una notte insonne di rivedere la partita di Monaco e tutto sommato...) e a maggior ragione con uno o due grandi acquisti in attacco, ma non è da questi particolari che si giudica un allenatore. Quasi tutti gli elementi a sua disposizione, con esclusione di Vucinic e Giovinco, hanno reso al 100% delle proprie possibilità. Il vero scudetto di un allenatore, che si chiami Conte o si chiami Pioli (per citarne un altro che ha dato qualcosa in più alla sua squadra), è questo. A zavorrare ulteriormente Conte, in questo suo bis, è stata la squalifica di quattro mesi per le note vicende di calcio taroccato (riguardanti il Conte versione Siena). Nessuno può dirsi avvantaggiato (anche se Terry Venables sosteneva il contrario) dal seguire i propri giocatori dalla tribuna invece che a pochi metri di distanza. Un handicap in più (colpa comunque di Conte, non della malasorte), che dà a questo scudetto un peso specifico ancora maggiore.