Franco Baldini è uno dei personaggi più detestati dal radiato Moggi, già solo questo fatto dovrebbe renderlo simpatico a chi crede, o almeno spera, in un calcio più pulito di quello attuale e soprattutto di quello del recente passato. Un passato che non ritorna, per la semplice ragione che mai se ne è andato: tutti i dirigenti squalificati, da Galliani ai Della Valle passando per Lotito e Preziosi, invece di essere invitati ad occuparsi d'altro (per motivi di decenza, non giuridici) sono ancora qui a dettare la loro modesta legge. Detto questo, i quasi due anni di seconda incarnazione romanista di Baldini sono da dimenticare sul piano dei risultati sportivi, ma non da buttare in assoluto perché il lavoro non è stato solo quello sulla squadra. E adesso che ha rassegnato le dimissioni da direttore generale, rinunciando a due anni di contratto (non perché sia un santo ma perché ha il Tottenham già pronto: al colpo doppio, buonuscita più nuovo ingaggio, poteva pensare solo Allegri), è possibile e doveroso un bilancio. Quello tecnico non risiede solo nei risultati, ma anche negli allenatori proposti (e non imposti, visto che c'erano e ci sono anche altri dirigenti, da Zanzi a Sabatini): i classici allenatori 'da progetto', che a Roma possono essere mediaticamente venduti meglio che in altre realtà condannate a vincere. Luis Enrique, formalmente arrivato prima di Baldini ma da lui apprezzatissimo, l'icona Zeman ma anche lo stesso Andreazzoli che si è giocato male l'occasione della vita. Scelte coerenti con una certa idea di calcio, scelte confermate da un calciomercato creativo (insieme a Sabatini) che alla Roma, nelle tre sessioni sotto la sua gestione, ha portato gente come Borini e Marquinho (gennaio 2012), Bradley, Tachtsidis e Destro (estate 2012), Marquinhos (gennaio 2013), solo per citare scelte non banali e di prospettiva. Tutte poi monetizzate o monetizzabili. Così come De Rossi, convinto l'anno scorso a rimanere grazie a un supercontratto (10 milioni di euro lordi l'anno), ma alla peggio stra-vendibile nell'Europa che conta. Il tutto navigando a vista, destreggiandosi fra l'ambiguo palleggiamento di responsabilità fra Pallotta & Friends e Unicredit, che da socio di minoranza è costretta, in quanto finanziatore, ad essere il vero padrone della Roma post Sensi. Con gli 'americani, Pallotta in testa, che di lui avevano una buona opinione non fosse altro che per il profilo internazionale e che culturalmente erano e rimangono il tipo di proprietà (anzi, 'proprietà', vista la situazione con Unicredit) più adatta a quei progetti a medio termine tanto cari a Baldini. Probabilmente decisiva è stata la contestazione di parte della tifoseria, così come gli ultimi mesi sul campo con Andreazzoli di fatto più vicino a Sabatini che a lui. Se poi vogliamo buttarla in caciara, si può dire che Totti (il cui ruolo politico viene ingigantito dai suoi antipatizzanti, ma che di sicuro può orientare gli umori del tifo) non si sia speso nei suoi confronti. Era insomma il momento giusto per tornare nell'amata Londra. Conclusione? Al pubblico romanista si proverà a vendere ancora il cosiddetto progetto, possibilmente con un allenatore che catalizzi l'attenzione. Ma, per citare Totò, ogni limite ha una pazienza.