Vujadin Boskov è stato molto celebrato in vita, non è morto da genio incompreso. Questo non toglie che, come tutti i senza maglia e i senza bandiera, non abbia mai avuto legioni di giornalisti o tifosi adoranti (o odianti). Quintessenza dello jugoslavo uomo di mondo, ha avuto la sfortuna di essere un campione nella Jugoslavia comunista di Tito: centrocampista del Vojvidina e della bellissima nazionale (fece epoca il drammatico ottavo di finale contro l'Unione Sovietica) che ai Giochi Olimpici di Helsinki 1952 si arrese solo in finale alla Grande Ungheria di Puskas e tutti gli altri, giocò anche due Mondiali. Nel 1954, fermandosi ai quarti contro la Germania Ovest poi vincitrice, e nel 1958, anche lì bloccato dai tedeschi: era la squadra che aveva Beara in porta e Milos Milutinovic (il più grande talento della storia jugoslava, fratello dell'oggi più famoso Bora). Solo a 30 anni gli fu permesso di espatriare, per raccattare qualche soldo in una Sampdoria ben diversa da quella dell'era Mantovani e poi a Berna nello Young Boys. Più conosciuta è la sua parabola come allenatore, apprezzato in cinque nazioni (Jugoslavia, Olanda, Svizzera, Spagna e Italia) e professionista umile al punto di accettare la panchina dell'Ascoli (in serie B, avendo sostituito Mazzone la stagione prima in serie A) dopo avere allenato la nazionale jugoslava, il Feyenoord e soprattutto il Real Madrid, con cui vinse una Liga, una Coppa del Re e arrivò nel 1981 alla finale di Coppa dei Campioni perdendola contro il Liverpool di Bob Paisley e Kenny Dalglish. È chiaro che in Italia pur avendo allenato anche Roma (facendo esordire un sedicenne Totti), Napoli e Perugia, rimarrà indelebile soprattutto il Boskov allenatore della Sampdoria, in un ciclo straordinario consentito dai soldi di Paolo Mantovani ma anche dall'intelligenza di Boskov nel gestire un gruppo di grandissimi e giovani, quando nel 1986 li prese sotto le sue cure, talenti italiani: Vialli, Mancini, Pagliuca, Mannini, Pari, Luca Pellegrini. Tutti grandi promesse, quando Boskov fu scelto da Mantovani, tutti presenti nello storico scudetto 1990-91 arrivato nella maniera più bella, cioè dopo anni di tentativi e sconfitte contro club più protetti politicamente e mediaticamente. L'unico altro a vivere tutto il ciclo di Boskov fu il senza età, in tutti i sensi, Toninho Cerezo… Quell'avventura, di una squadra bellissima (parentesi: giocava all'italiana, con il libero e il contropiede) e davvero rappresentativa dello spirito anni Ottanta, finì nella finale di Coppa Campioni 1991-92 a Wembley: Vialli sbagliò gol che di solito non sbagliava, il Barcellona di Cruijff soffrì moltissimo ma alla fine prevalse con una punizione di Ronald Koeman nei supplementari. Poi Vialli fu ceduto alla Juventus e Boskov considerò finito il ciclo. Avrebbe allenato altri otto anni, chiudendo di fatto con l'Europeo 2000 sulla panchina della Jugoslavia, venendo però trattato più come un personaggio di culto che come un allenatore. È stato molto di più che una macchina da frasi celebri, facilmente rintracciabili con Google. È stato un uomo di calcio che ha saputo adattarsi a diverse epoche storiche e a diversi contesti, lavorando al massimo livello in ognuno di essi. Quasi tutti quelli che hanno vinto più di lui hanno ballato magari bene, ma per poche estati: sicuramente non per quaranta.