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Milan, anatomia di una crisi

Milan, anatomia di una crisi

Redazione

21 gennaio 2015

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Fa male vedere un Milan in queste condizioni. Fa male perché gli spettacoli grotteschi, le parodie di una grandezza che fu reale e indiscussa, ti lasciano ogni volta un senso di fine, di piccola tragedia. Il Diavolo non esiste più da anni, lo sappiamo tutti, ma il reiterarne la facciata, con operazioni di maquillage come quella di sventolare il ritorno a casa di Arrigo Sacchi, finiscono unicamente per aumentare il rimpianto di ciò che non esiste più. Non è il misero punto ottenuto dai rossoneri nelle ultime tre partite di campionato a spingere verso questa considerazione definitiva e un po’ triste. Sono bensì gli anni, ormai tanti, in cui il Milan ha continuato a scivolare, ad arretrare, a decadere senza possibilità di invertire la rotta, schiavo di un modello che non esiste più e che al contempo ne ha bloccato il rinnovamento. Un po’ come quelle compagnie di giro in cui gli attori invecchiano e si continua ad andare in scena con gli acciacchi, i capelli bianchi, i chili in abbondanza. È chiaro che sia una questione di soldi. La proprietà non è più in grado di sostenere gli investimenti di un tempo e – al netto delle dichiarazioni di facciata sull’attenzione al fair play o quelle di segno opposto secondo cui si spende più di altri club – tutti sanno benissimo come la musica sia mutata. Ma è anche una questione tecnica, perché in epoca di crisi si deve puntare sui giovani, sui programmi, sul lavoro di formazione e scouting, cose scomparse dall’orizzonte di Milanello. Mi raccontano di una rete di osservatori ormai praticamente estinta, con responsabili di cui mi sfugge persino il nome. Adriano Galliani, oggi principale accusato della decadenza milanista, ha provato a tamponare nel tempo le falle, convinto che qualche nome dato in pasto alla folla potesse funzionare come le brioche lanciate da Maria Antonietta al popolo affamato. Ma la toppa è talvolta peggiore del buco. Tanti, troppi acquisti a parametro zero, “comprati” con ingaggi alti ma soprattutto una serie infinita di vecchie glorie spompate: Redondo, Rivaldo, Ronaldo, Ronaldinho, Vieri, Cassano, fino al pomposo ritorno di Kakà o all’ingaggio di Essien. Citiamo per sommi capi, perché la lista è lunghissima. Fumo negli occhi,. Ognuno ha però le sue responsabilità, non solo Galliani. Barbara Berlusconi, giovane e ambiziosa, non ha cambiato il corso delle cose, limitandosi a produrre una nuova sede. Qualche critica, una fronda interna destinata solo a spaccare il club, ma sempre lontana dalla soluzione dei problemi. Chissà, per altro, cosa sarebbe stato del Milan se, al posto di Pato, fosse arrivato davvero Tevez come voleva Galliani. Anche l'inesperto e acerbo Pippo Inzaghi, issato al comando dopo un Viareggio con la Primavera, ha sbagliato in queste ultime gare, retrocedendo Bonaventura a centrocampo e privandosi di un elastico ideale tra attacco e mediana. Evidentemente bisognava aprire uno spazio ai vari El Shaarawwy, Cerci e Menez. Troppi tattici attorno, faccia da solo Pippo. Ma questi sono dettagli, gocce nell’oceano del Milan. Anche il count-down dato a Inzaghi non ha ragione, la stessa illogicità che guidò gli esoneri di Allegri e Seedorf, amato e scaricato in quattro mesi da Silvio Berlusconi. Come capo, su di lui pendono le maggiori responsabilità. Le visite alla squadra al venerdì non producono più la magica idolatria di un tempo, anche il re Taumaturgo non ha più poteri senza soldi e giovinezza. Lasciamo poi perdere gli sfoghi, autogol evidenti. Se il Diavolo vuole tornare a fare il Diavolo, come gli chiede la storia, deve prendere atto che un mondo è finito. E che ne serve un altro. Basato su altre misure, su nuovi standard. Con differenti idee, proposte e uomini.

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