A Valencia è andata come doveva andare, in assenza di incidenti. Jorge Lorenzo è diventato campione del mondo della Moto GP per la terza volta in carriera (più altri due titoli nella 250) grazie alla prevedibile collaborazione di Marc Marquez, che gli ha fatto da guardia del corpo nei confronti dell'unico che avrebbe potuto far saltare il biscotto, cioè il compagno di squadra (di Marquez) alla Yamaha Dani Pedrosa. Valentino Rossi ha fatto il massimo possibile, cioè passare dalla ventiquattresima alla quarta posizione, ma a a quel punto era troppo staccato rispetto a un terzetto (anche se Pedrosa è stato con il fiato sul collo dei primi due solo negli ultimi tre giri) che, va detto, senza pioggia o situazioni strane viaggiava su un passo superiore al suo. Inutile ripercorrere la dietrologia fatta nelle ultime settimane, puntualmente diventata 'davantologia', o chiedersi quanto possa essere contenta la Yamaha di non avere buttato via un GP dando il doppio trionfo a una Honda. Tutti hanno simpatie e antipatie personali, con le seconde inevitabilmente più forti: il ventiduenne Marquez anche con quattro titoli mondiali alle spalle (2 in Moto GP, uno in 125 e uno in Moto2) sente molto di più come psicanalitico padre da uccidere il trentaseienne Valentino rispetto al ventottenne connazionale Lorenzo, da questo è disceso tutto. Ognuno nel mondo fa prima di tutti i propri interessi (e fra questi interessi rientra anche far perdere il 'nemico'), assurdo creare mostri o eroi soltanto in base al passaporto. Rimane il fatto che in uno sport dove i riflessi fanno la differenza fra vittoria e sconfitta (e anche fra vita e morte, senza metafore) Valentino sia arrivato alla sua età a giocarsi il decimo titolo Mondiale della sua carriera a quasi vent'anni dal primo, con la Aprilia nella allora 125. Difficile che l'anno prossimo abbia un'altra chance simile, perché l'immediato futuro è di Marquez prima ancora di Lorenzo, sicuro che anche nella delusione abbia confermato di essere il più grande di tutti i tempi. Non per la statistica, che premia Giacomo Agostini, o per la tecnica che fa preferire ad ogni appassionato un campione diverso (da Doohan a Spencer, da Roberts a Lawson allo stesso Rossi, le discussioni sono aperte), ma perché come spirito sembra lo stesso di due decenni fa. Fermare il tempo è una cosa per pochi eletti, non soltanto nel motociclismo.
Twitter @StefanoOlivari