Lo sponsor sulla maglia a noi in Italia non fa ormai più effetto, ma nella NBA potrebbe rappresentare una vera rivoluzione ed in ogni caso il suo successo è un'incognita. Dalla stagione 2017-18, infatti, alle trenta squadre sarà permesso di mettere sulla maglia un proprio sponsor, in uno spazio non eccessivo (traducendo dai pollici, si parla di un quadrato di 6,3 centimetri di lato). Non solo, ma a livello di lega la stagione 2017-18 sarà anche la prima con il cosiddetto sponsor tecnico: la Nike metterà il suo noto baffo su tutte le trenta maglie. Due innovazioni che nel breve periodo porteranno certamente più soldi, ma che guardando oltre potrebbero riservare più danni che vantaggi. Prima di tutto la cosiddetta sacralità della maglia, con soltanto il nome della squadra e del giocatore, non è una fissazione romantica ma anche la base del successo del merchandising NBA: il brand non è un concetto da convegno, ma qualcosa che fidelizza il tifoso più di aziende che vanno e vengono. Di Scavolini Pesaro e Benetton Treviso ce ne sono state poche (e adesso nemmeno più Scavolini e Benetton), non a caso tutte ricordate. In secondo luogo lo sponsor 'proprio' porterebbe a considerazioni sportive diverse: meglio il giocatore di nome di quello in crescita, un'ulteriore virata verso il campionismo che già rende la NBA il campionato con i migliori giocatori del mondo ma non sempre quello con la migliore pallacanestro. Inoltre il concetto di sponsor sulla maglia è abbastanza lontano dalla cultura americana e infatti ogni lega fa ragionamenti diversi: nella NFL c'è lo sponsor tecnico ma non quello commerciale, nella MLB e nella NHL nessuno dei due, nella calcistica MLS tutti e due. Di certo la NBA ci va cauta, tanto è vero che l'innovazione è stata dallo stesso commissioner Adam Silver considerata 'transitoria': dopo tre anni si farà un punto. E se saranno vendute meno magliette si farà marcia indietro.
Per Reggio Emilia, Trento e Sassari c'è aria di marcia indietro, dopo che la FIP ha comunicato alla FIBA l'intenzione (sintetizziamo) di punire chi uscirà dall'ordinamento federale aderendo alla 'proibita' Eurocup. Starà adesso a Malagò preparare una via di uscita onorevole ai tre club, dopo averli incontrati e dopo un pasticcio le cui colpe vanno equamente divise fra la federazione di Petrucci e quel che rimane della Lega. Rimane il fatto che le tre società siano state nella sostanza ricattate dalla FIP, con la minaccia dell'esclusione dalla serie A, soltanto per avere pensato ad un futuro finanziariamente più sostenibile e con orizzonti più vasti. Senza contare che l'anno prossimo Milano si troverà nella stessa situazione, anche se sull'Eurolega la FIBA sembra più disposta a trovare una soluzione morbida. Come finirà? È evidente che un'Eurocup depotenziata, senza i club medio-grandi in patria ma di cilindrata troppo piccola per l'Eurolega, non potrebbe nemmeno cominciare. IMG o non IMG. Il grande compromesso potrebbe essere un'Eurolega a gestione privatistica, come del resto già è, con licenze decennali e comunque abolizione assoluta del diritto sportivo, ma senza Eurocup in modo che la nuova Champions-carrozzone della FIBA abbia qualche realtà importante da vendere. Tutto dipenderà dal coraggio di chi vorrà davvero andare a 'vedere' il bluff di Baumann. Le tre italiane non sembra ce l'abbiano, ma speriamo di sbagliarci.
Dwayne Washington non è certo stato il più grande playmaker di tutti i tempi, ma di sicuro è stato uno dei pochi miti della pallacanestro di strada (nel suo caso newyorkese) ad avere una discreta carriera universitaria e nella NBA. È morto troppo presto, a 52 anni e dopo un lungo trascinarsi del cancro al cervello che lo aveva colpito, così come troppo presto, a 27 anni, era uscito dai radar degli appassionati. Considerato nel 1983 il miglior giocatore liceale degli USA, nello stesso anno con la nazionale americana Under 19 fu campione del mondo a Palma di Maiorca. Maestro indiscusso dello 'shake and bake' (in sostanza una finta che gli consentiva poi di andare diritto ad appoggiare a canestro), trascorse tre anni memorabili a Syracuse, rimasti nel cuore di coach Jim Boeheim (che lo considera uno dei personaggi che più hanno fatto per il successo della Big East, la conference appunto di Syracuse), prima di essere scelto alla numero 13 dai New Jersey Nets ed essere dopo due stagioni discrete trasferito nei neonati Miami Heat. Soprannominato 'The Pearl', ovviamente in omaggio a Earl Monroe, Washington era tutt'altro che un super-atleta ma il suo trattamento di palla era qualcosa di clamoroso: il campetto, o playground che dir si voglia, trasportato nella pallacanestro vera. Una rarità.