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Il fuoco di Durant e dei Thunder

Il fuoco di Durant e dei Thunder

Redazione

23 maggio 2016

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E se fosse l'anno buono per i Thunder? Lo si dice da cinque stagioni, poi finite fra mezze delusioni (su tutte la finale persa con i Miami Heat nel 2012, quando c'era anche Harden), oppure fra infortuni e polemiche, insieme a considerazioni amare su una squadra con due capitani che condizionano troppo i gregari. Però in questi playoff c'è un fuoco diverso e non certo perché dalla panchina Billy Donovan abbia portato chissà quali schemi sconosciuti a Scott Brooks: anzi, pregi e difetti dei vecchi Thunder si sono estremizzati e il discorso tattico rimane sempre lo stesso anche se Donovan ha proposto più variazioni sul tema rispetto al suo predecessore (l'ultima è il maggiore utilizzo di Ibaka da centro, in una versione di 'small ball' che toglie un po' di pressione alle due stelle). L'ennesima prova la si è avuta la scorsa notte, quando a Oklahoma City gli Warriors sono stati asfaltati molto al di là del 133-105 che porta in vantaggio 2 a 1 i Thunder nella finale della Western Conference. Alla Chesapeake Energy Arena le 73 vittorie della stagione regolare sono sembrate un ricordo e gli Warriors sono stati battuti soprattutto psicologicamente, venendo sotterrati in un tipo di pallacanestro che fondamentalmente (e con più organizzazione dei Thunder) sarebbe la loro. Durant e Westbrook, 33 e 30 punti rispettivamente, sono stati dominanti ma la chiave di questo 2 a 1 oltre alle scelte di Donovan è stata una difesa almeno accettabile su Curry e Thompson, che non li ha certo annullati ma ha evidenziato certi limiti dei compagni visto che le loro statistiche individuali sono state buone ma il loro plus-minus è stato peggiore del risultato di squadra. La partita va però letta al di là dei numeri, essendosi decisa fondamentalmente nel secondo quarto ed in base a uno stato emozionale di quelli difficili da spiegare (se fosse facile tutti avrebbero la ricetta per vincere tutto). Grande inizio dei Thunder, con Durant ad applicare in maniera martellante il consiglio di Donovan (in sintesi: attaccare il canestro, a costo di forzare, prima che la difesa di Golden State lo raddoppi visto che può battezzare almeno due quinti dei Thunder), ma Warriors poi tornati in scia fino a quando a Draymond Green, la vera anima della squadra, si è visto fischiare un flagrant foul su Adams, ennesimo episodio di una straordinaria sfida fisica, condita da piccole porcherie da NBA anni Settanta. E da lì, da metà quarto, i Thunder hanno piazzato un parziale clamoroso andando al riposo sul 72-47 grazie a una serie di giocate difensive e offensive da urlo: il manifesto è stato una stoppata di Durant su Green, con palla recuperata dallo stesso KD e portata con la solita fluidità in avanti, per un palleggio-arresto e tiro da tre punti che sarebbe uscito indenne anche da un arbitraggio FIBA (al contrario di quelli di altre stelle NBA). Ancora più clamoroso che i Thunder abbiano gestito il vantaggio, mai stata una specialità della casa, con la complicità di una certa piattezza degli Warriors. L'asterisco doveroso è che i bilanci per i campioni in carica sono ancora prematuri: dall'1-2 negli scorsi playoff si sono tirati fuori sia contro i Grizzlies sia, soprattutto, contro i Cavs  in finale. Però i Thunder sono una squadra così estrema da essere più pericolosi anche di avversari completi, perché ad alto ritmo sono gli unici nella NBA a poter reggere l'impatto con la filosofia di Kerr. Che a questo punto per garaquattro, sempre a Oklahoma City, dovrà tirare fuori un aggiustamento dei suoi. Giocarsela a mille all'ora con la cavalleria leggera, come ha tentato di fare in garatre in sostanza dimenticandosi di Bogut ed Ezeli, oppure metterla sul fisico? Domanda banale che però richiede una soluzione geniale. Di sicuro almeno per un'altra settimana non si parlerà di Durant agli Spurs o altrove.

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