Kevin Durant ai
Golden State Warriors era diventato uno scenario possibile proprio dopo la finale di Conference persa dai Thunder contro i Warriors, trasformatosi in probabile
dopo le Finals perse da Curry in compagni. Ma la 'Decision' (ormai ogni scelta di carriera è una 'Decision', anche quella del fruttivendolo che decide di fare il panettiere) del 27enne fuoriclasse ha lo stesso colpito anche chi segue superficialmente la NBA. L'annuncio di Durant, per lui contratto biennale da 27 milioni di dollari a stagione con possibilità di uscirne già nel 2017, è stato sul piano mediatico di minore impatto rispetto ai due di
LeBron James, ma sul piano sportivo è senz'altro di un livello superiore. Perché uno dei migliori giocatori della lega va a rinforzare una squadra non in ricostruzione ma che è già la seconda migliore della NBA, con il suo 73-9 da record in stagione regolare e la sconfitta 4-3 in Finals giocate con mille problemi fisici e un rendimento inferiore al solito sia delle stelle sia dei comprimari. Un super-colpo del 78enne
Jerry West, l'uomo simbolo della NBA non soltanto per il logo ma perché da dirigente è stato l'ideologo di più cicli vincenti di più squadre, fino appunto a questi Warriors. Che lo possono senz'altro integrare sul piano umano (Curry e Iguodala sono i colleghi NBA con i quali Durant ha il miglior rapporto), sportivo (il basket estremo di Kerr sembra tagliato su misura per lui) e psicologico, visto il desiderio di rivalsa dell'ambiente Warriors ed il fatto che Durant un anello non lo ha ancora vinto. Il problema è di Oklahoma City, il cui grande ciclo termina qui nonostante l'ottimo lavoro fatto da Donovan, e della NBA in generale, dove non più di una quindicina di squadre su trenta giocano sul serio e quelle tre che giocano per il titolo (Cavs, Warriors e gli Spurs che hanno appena ingaggiato
Pau Gasol) sono sempre più forti. Paradossalmente i super-team fanno però bene agli ascolti televisivi, visto che quelli dei playoff 2016 sono stati paragonabili a quelli dell'era Jordan. Dal punto di vista della lega sono però l'inizio della fine della NBA classica, basata sul concetto di giocatore-franchigia arrivato in una realtà depressa e attorno a cui costruire (o provare a farlo, che per il tifoso è lo stesso) una squadra da titolo. Nel passato non sono mancati i superteam, ma quasi mai due o più stelle sono state messe insieme all'apice della fama: c'era la stella, il
Jabbar o il
Jordan della situazione, e c'era chi stella lo diventava arrivando però dal draft (
Magic e
Pippen) o dalla sottovalutazione da parte di altre squadre. Questione anche di personalità: Jordan non avrebbe mai voluto essere la co-stella di una squadra, ma era appunto Jordan. Non è insomma una situazione in cui ci sia il bene e il male, ognuno ha i suoi gusti, di sicuro sul piano sportivo per la NBA fondata sui superteam venti squadre bastano e avanzano. Poi il mondo è pieno di spettatori di bocca buona che si esaltano per highlights pieni di schiacciate effettuate dopo un quinto tempo, quindi magari i conti torneranno lo stesso anche con trenta.