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La NBA nell'era Trump

La NBA nell'era Trump

Un problema di marketing, Varese dopo Mannion, Markovski eterno e l'Italia della Scalia

6 novembre

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La vittoria di Donald Trump è un duro colpo per la NBA, che si era esposta come lega genericamente in favore del voto (nel giorno delle elezioni presidenziali non si è giocato, il giorno prima invece tutti in campo e molti con la scritta ‘Vote’ sulla maglia), anche se il messaggio era chiaro, e come singoli in favore di Kamala Harris, con campioni del presente (LeBron James, Curry) e del passato (Magic Johnson) sulla stessa linea. Tutti comunque attenti a non farsi associare a Trump, come ad esempio Michael Jordan che comunque non ha mai voluto essere associato a nessuno. A torto o a ragione la NBA è vista da buona parte dell’America come parte di quel mondo politico, mediatico e culturale che aspira a dare lezioni ai suoi spettatori e ai suoi follower. Senza dimenticare la questione razziale, visto che la stragrande maggioranza dei neri votanti ha votato per la Harris e che il 70% dei giocatori di NBA è nero. Per il marketing NBA un problema enorme, in una stagione in cui il salary cap ha toccato il record di 140,647 milioni di dollari ed è programmato per crescere in un decennio fino a 364,65. È chiaro che la NBA, la cui importanza negli USA è però da noi sopravvalutata (le ultime NBA Finals hanno avuto 11,3 milioni di telespettatori medi, 3 milioni meno della finale NCAA), non può permettersi di essere antipatica a metà della popolazione.

La trattativa fra Varese e Olimpia Milano per Nico Mannion ha avuto l’esito scontato quando da una parte del tavolo il budget per gli ingaggi dei giocatori è 30 volte più grande che dall’altra. Mannion, il giocatore meno da Ettore Messina al quale si possa pensare, è quindi a disposizione di Messina ed è facile pensare che sarà importante soprattutto per il campionato, facendo concentrare sulla fin qui disastrosa Eurolega Dimitrjevic e Bolmaro, senza più giustificazioni per imbarcate tipo il meno 34 subìto a Trento. Per Varese, fra buyout e soldi lasciati da Mannion, un tesoretto da 400mila euro circa, senza contare gli stipendi futuri del giocatore che passeranno in carico ad Armani, per rifare una squadra che Scola ha sbagliato. Fresco il ritorno di Jaron Johnson, ricordando la bella stagione con Matt Brase in panchina, freschissimo l’annuncio dell’usato, a 36 anni forse troppo usato, sicuro di Alex Tyus. Probabilissimo l’ingaggio di un erede di Mannion come playmaker e sicuro che il mercato sempre aperto sia un crimine contro la pallacanestro. La spiegazione del monogioco in Italia e in gran parte d’Europa, una versione 2.0 del vituperato penetra e scarica, risiede proprio in questa provvisorietà che piace soltanto agli agenti capaci e ai dirigenti incapaci.

Fra la Pistoia di Ron Rowan e Dante Calabria è finita nel peggior modo possibile: licenziamento per giusta causa, senza che sia possibile capire quel ‘giusta’ (infatti Calabria proverà a recuperare i soldi dei tre anni di contratto) e tutto sommato nemmeno la causa, a meno di credere che Rowan abbia comprato una squadra di Serie A soltanto per far giocare il figlio Maverick. Comunque fuori Calabria e dentro l’esperienza di Zare Markovski, a 64 anni alla dodicesima squadra italiana allenata, che peraltro non sta andando affatto male.  

L’Italia femminile torna in campo per le inutilissime, visto che è già qualificata di diritto come co-organizzatrice, qualificazioni europee, ma le partite contro Repubblica Ceca e Grecia saranno comunque interessanti per valutare un gruppo molto giovane che per la prima volta in tanti anni (nel 1995 l’ultimo piazzamento europeo fra le prime quattro, argento con la memorabile squadra di Riccardo Sales che aveva Catarina Pollini come leader) fa sperare in qualcosa di buono. Fra le convocate di Capobianco la veterana è addirittura la Zandalasini, che ha 28 anni, 8 in più della già emersa Matilde Villa, che in un altro contesto culturale sarebbe la Caitlin Clark italiana. Ma a questo giro la curiosità è per le nuove, su tutte Sara Scalia: l’italoamericana di Campobasso potrebbe essere la supertiratrice che ci è spesso mancata e che in una squadra storicamente poco fisica può fare la differenza fra la mediocrità e il sogno. Certo l'hype della pallavolo rimarrà irraggiungibile per generazioni, bisogna farsene una ragione.

stefano@indiscreto.net

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