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Le Final Four di Dubai, l'anno di Veronesi e la generazione di Vitali
Le Final Four di Eurolega si giocheranno a Abu Dhabi, dal 23 al 25 maggio 2025, ennesima svolta per un basket europeo che sta buttando via l’unico vero suo punto di forza rispetto alla NBA, cioè l’identità, il fatto che tutte le squadre giochino sul serio in contesti quasi sempre legati a una tradizione vera (non sottilizziamo sull’operazione Paris). L’offerta dell’emirato è stata messa ai voti e su 13 (cioè i possessori delle licenze pluriennali, fra cui l’Olimpia Milano) in 11 hanno accettato i 50 milioni di euro messi sul piatto per lanciare questo sport dove colmare il gap con l’Europa è decisamente più facile che nel calcio. Contrari soltanto Real Madrid e Olympiacos, cioè due realistiche aspiranti alle Final Four, formula che piace ma che in Europa non ha trovato nessuno disposto a spendere, per l'organizzazione, una cifra superiore al più alto budget fra le squadre. Per fare un paragone calcistico, è come se Abu Dhabi offrisse alla UEFA 300 milioni per ospitare la finale di Champions League. Il disegno di fondo è chiarissimo e si chiama wild card, quella a cui aspira anche il Dubai di Abass che per il momento è entrato nella Lega Adriatica. Momento di grande fermento organizzativo, con forte pericolo di anarchia e il possibile scontro fra due blocchi: quello FIBA-NBA, di cui tanto si parla, e quello Eurolega-arabi. Il discorso di base è che con i budget attuali quasi nessuna squadra di Eurolega è in equilibrio né promette di esserlo nei prossimi decenni.
L’uomo nuovo della pallacanestro italiana è Giovanni Veronesi, anche se è nuovo soltanto per i nostri canoni visto che l’ala bresciana ha 26 anni e fino a tre stagioni fa giocava in Serie B, nemmeno l’A2 in cui è emerso guadagnandosi l’ingaggio a Sassari dove adesso sta facendo ottime cose, con il massimo di punti, 24, toccato proprio nell’ultima partita contro Trieste, dove ha impressionato non soltanto per la sua specialità, cioè il tiro da fuori in uscita da un blocco o comunque aperto, ma per i 35 minuti giocati. Non stiamo parlando di un fenomeno e nemmeno di una tipologia fisica che a Pozzecco manchi, anzi, ma di un giocatore che con regole diverse (e non ci riferiamo ai passaporti) sarebbe arrivato in A ben prima di giocare nel suo decimo club. Cosa che dice tutto sulla precarietà del sistema, che impedisce di affezionarsi a chiunque e che al giocatore fa perdere anni preziosi.
Qualche giorno fa si è ritirato Luca Vitali, a 38 anni, dopo una buonissima carriera iniziata nelle giovanili della Virtus Bologna insieme al coetaneo Belinelli, proseguita con uno scudetto vinto quasi bambino a Siena e con un giro d’Italia fra metropoli (Milano e Roma) e provincia e chiusa la scorsa stagione in Serie A2 a Treviglio. Ogni appassionato ha il suo ‘miglior Luca Vitali’: il nostro è quello di Montegranaro, del tutto competitivo con la generazione NBA di Bargnani, Gallinari e appunto Belinelli e con l’attesa messianica del grande playmaker di due metri. Il grande palcoscenico di Vitali è stato la Nazionale, dove ha giocato dal 2006 al 2019 chiamato da Recalcati, Pianigiani, Messina e Sacchetti. Due sole però le fasi finali di grandi manifestazioni: gli Europei del 2013 e i Mondiali del 2019, quasi mai da protagonista. Nella sostanza, per talento e intelligenza cestistica in rapporto a vittorie e, diciamolo, guadagni, Vitali è stato forse il più incompiuto di una generazione di incompiuti, quella dei nati dal 1983 al 1988: insieme a Vitali da citare Mancinelli, Gigli, Crosariol, Bargnani, Belinelli, Datome, Hackett, Aradori, Gallinari. Incompiuti in azzurro, perché poi per il resto tante soddisfazioni se le sono tolte. Vitali meno di tutti loro, senza un vero perché.
stefano@indiscreto.net
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