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Gli anni di Dalipagic

Gli anni di Dalipagic

Addio a uno dei più grandi giocatori europei di sempre, punto di contatto fra le due generazioni d'oro della pallacanestro jugoslava. Un fenomeno sottovalutato da chi lo ricorda soltanto per la sua carriera italiana da tiratore...

4 giorni fa

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Difficile dire chi sia stato il più grande campione delle due generazioni di fenomeni jugoslavi, quella dell’oro olimpico 1980 e quella del Mondiale 1990: di sicuro Drazen Dalipagic entra a pieno titolo in una discussione che va da Cosic a Kukoc, passando per Delibasic e Drazen Petrovic, con anche tanti italiani che adesso lo piangono e non soltanto per i suoi sette anni da noi, quattro a Venezia in due epoche diverse, due a Udine e uno a Verona. Per certi aspetti al fenomeno serbo, che ci viene naturale definire jugoslavo, appena scomparso a 73 anni di età, non viene resa giustizia visto che molti lo giudicano soltanto per la sua carriera anni Ottanta e quindi mettono l’enfasi sulle sue qualità di tiratore e sui suoi record, dalla partita dei 70 punti (Reyer contro Virtus Bologna nel 1987) a tanti altri, quasi tutti realizzati senza il tiro da tre punti che nella pallacanestro FIBA fu introdotto nel 1984, quando il popolare ‘Praja’ aveva già 33 anni.

In realtà il Dalipagic del Partizan Belgrado era un’ala piccola abile nella lettura del gioco, tutt'altro che un mangiapalloni, e un atleta straordinario, uno dei pochi europei a schiacciare senza problemi, uno che attaccava il canestro in quello sport in cui bisognava avere più dimensioni e la statistica non premiava il tiro al piccione. In senso storico Daiipagic è stato l’unico dei grandissimi della prima generazione d’oro a giocare con i giovani campioni della seconda: al Mondiale 1986 in Spagna lui era il grande vecchio nella Jugoslavia allenata da Cosic che vinse un amarissimo bronzo (la rimonta subita in semifinale dall’Unione Sovietica rimane fra le più incredibili viste a questo livello), la squadra di Drazen Petrovic già superstella e dell’allora emergente Vlade Divac. Come tutti quelli della sua generazione, fino a 28 anni non poteva giocare all’estero e nel suo caso il divieto si estese fino ai 29 per via delle Olimpiadi di Mosca: davvero un altro mondo, per quanto il comunismo della Jugoslavia fosse diverso da quello sovietico. Con regole diverse i primi europei a sfondare nella NBA sarebbero stati lui o Cosic, ma è ovvio che ognuno viva nel suo tempo.

Pur avendo visto giocare quella squadra, oggi non riusciamo nemmeno a concepire il fatto che nel 1980 una squadra di A2 (!!!) come la Reyer, allora targata Carrera Jeans, giocasse con due stranieri come Dalipagic e Spencer Haywood, ma le cose stavano davvero così e fuori dalla NBA, che all’epoca si vedeva in differita di una settimana, i giocatori di alto livello avevano come prima opzione l’Italia e non necessariamente in club da scudetto. Dopo quella stagione, conclusa con la promnozione in A1 e il suicidio nella finale di Coppa Korac, Dalipagic si vide rifiutare un aumento e se ne tornò al Partizan, per poi andare al Real Madrid a fare lo straniero di coppa (definizione che oggi sembra ostrogoto) e tornare in Italia, però mai in squadre da titolo. Da noi, a Napoli e Latina, avrebbe giocato anche il figlio Davorin, discreta ala ma pianeta diverso rispetto a Drazen. Addio con lacrime al compagno di tanti sabato pomeriggio su Telecapodistria con le telecronache di Sergio Tavcar con la maglia del Partizan di Kicanovic, Maric, Todoric, Arsenije Pesic… Con gli allenatori che erano Zeravica e Ivkovic, tanto per dire. Quando la pallacanestro europea non era Serie B, ma una cosa diversa ed emozionante rispetto alla NBA, con una identità fortissima. Come quella di Dalipagic.

stefano@indiscreto.net

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