Con la maglia della Nazionale ha vinto l'Europeo del '68, con quella dell'Inter - giocando da protagonista nel leggendario ciclo di Helenio Herrera - quattro scudetti, due Coppe dei Campioni e due Coppe Intercontinentali. Sandro Mazzola, storica bandiera nerazzurra, interviene sul prossimo derby d'Italia in programma domenica sera tra le squadre di Mancini e Allegri.
L'Inter ha 16 punti, ma arriva da una sconfitta e un pareggio. La Juventus ne ha 8, ma arriva da due belle vittorie contro Siviglia e Bologna. Chi rischia di più in questo momento?
«Direi Juve, sempre per via della classifica. L'Inter, anche se dovesse non vincere, resterebbe comunque nelle prime posizioni».
Kondogbia-Pogba, sfida nella sfida. Amici e rivali. Il nerazzurro ha giustificato sul campo il pesante investimento economico?
«Non ancora. Ha fatto intravedere qualcosa, ma non abbastanza per quelle cifre. Dovrà farlo più avanti, ha tutte le possibilità per crescere. Dipende dalla volontà che ci mette».
Anche il centrocampista della Juventus, in realtà, non sta attraversando uno dei momenti più felici. Cosa ne pensa della maglia numero 10?
«I numeri non hanno più lo stesso significato di una volta. Pogba ha le qualità per essere il numero uno, ma per adesso non è riuscito a dimostrarlo».
Trovi un limite ai due allenatori, Mancini e Allegri. In cosa potrebbero migliorare?
«Sicuramente nell'aggiustamento della squadra, a seconda del risultato della partita. Sono poco schematici, partono in un modo ed è difficile che cambino. Secondo me potrebbero modificare qualcosa a gara in corso, tipo nel modo di attaccare o di difendere. Capisco le difficoltà, ma con quello sarebbero il top».
E l'allenatore che più le piace in Serie A?
«Sarri!».
Perché?
«Fa giocare bene le squadre, ha attenzione, intensità e utilizza il modulo giusto».
Un giocatore che ruberebbe volentieri alle altre squadre e porterebbe all'Inter?
«Attingerei dalla rosa della Fiorentina. Ti dico Giuseppe Rossi».
A proposito della capolista, chi vincerà lo scudetto?
«Inter. E se non lo vince l'Inter, lo vince la Fiorentina».
Ha esordito in Serie A in una circostanza particolare, proprio contro la Juventus. Le va di raccontare brevemente la storia di quel giorno?
«Campionato 1960-1961. Sospesero la partita perché c'era troppa gente allo stadio, assegnando la vittoria a tavolino all'Inter. Poi la Juve fece ricorso e si decise di rigiocare. Per protesta scendemmo in campo con la Primavera. Il bello è che la gara si sarebbe dovuta giocare di sabato, alle 14:30, e io al mattino avrei dovuto sostenere tre interrogazioni a scuola. A quel punto a casa mi dissero: "No no, te vai a scuola!". L'Inter chiamò il preside, chiedendogli di farmi uscire alla terza ora, subito dopo i miei esami. Quindi andai con la valigetta di metallo della società e sotto al tavolino i panini».
Prima interrogazione?
«Matematica. Il professor Gagliardi era uno di quei meridionali fantastici, con famiglia numerosa. Lo chiamavamo 'Quaccero' perché non diceva 'quattro', diceva 'quaccero'. Tutti i sabati mi faceva fare la schedina perché sperava di vincere un po' di soldi al Totocalcio. Alla fine rinunciò: "Hai fatto un buon compito in classe, non ti interrogo. 6!".
Seconda interrogazione?
«Inglese. Una bellissima professoressa. Non che si vestisse in maniera scollata, ma sai all'epoca non era come oggi. Quindi si andava sempre alla cattedra per cercar di vedere qualcosa. Anche lei titubante sul da farsi. I miei compagni: "Non può interrogarlo, deve andare a giocare!". Mi chiama, mi fa due domandine ridicole e mi manda a posto. Missione compiuta».
Terza e ultima interrogazione?
«Economia politica. Anche lui un grande. Anni dopo, quando andai a trovarlo, guardò i suoi studenti dichiarando: "Sapete perché è diventato un ottimo giocatore? Perché ha applicato i miei concetti di economia politica al calcio"».
Momento amarcord. Qual è il ricordo più intenso che ha della sua 'Grande Inter'? Tolte le circostanze ovvie, come la conquista dei trofei.
«Quello con il Vasas di Budapest (ottavi di finale della Coppa dei Campioni 1967, ndr) perché eravamo fuori casa, perché era una squadra eccezionale. Non avevamo mai superato la metà campo, a un certo punto mi arriva palla, comincio a correre, trovandomi infine a dribblare il portiere: due di loro, però, erano in porta. Frazioni di secondo che parevano interminabili. La butto dentro, mi giro e vedo che non c'è nemmeno un compagno che viene ad abbracciarmi. Forse erano disperati (ride, ndr) perché temevano un mio possibile disastro. E il pubblico, compreso quello italiano, in silenzio».
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@damorirne