I giorni che passano sembrano allontanarci dalla tragedia di Bruxelles, ma gli occhi e il cuore la trattengono, rifiutando d’accostarsi ancora al calcio, allo sport che ha rallegrato tanti anni della nostra vita. Il compiacimento tante volte esternato d’essere testimoni d’un mondo diverso, negato alle quotidiane amarezze dell'esistenza, forse infantile perché legato a un gioco dato più agli innocenti entusiasmi che alle passioni bestiali, quella sorta d’orgoglio che ci ha nutrito negli anni s’è spento nell’allucinante serata dell’Heysel quando abbiamo ritrovato orrori e lacrime dimenticati e il senso d’inutilità del nostro sogno. Non vi dirò - altri lo faranno - lo sgomento di quelle lunghe ore d’assedio in uno stadio in cui s’era aperta una voragine d’inferno; non mi dilungherò sulle visioni atroci offertesi ai miei occhi quando ho intuito che dalla massa terrificata del settore Z doveva essersi librata la morte e sono andato a cercarla fra corpi smembrati e feriti, fra volti spentisi in una maschera di paura, fra le lacrime mute o disperate dei sopravvissuti che invocavano vita per gli amici o i parenti massacrati. Le ore trascorse da quella sera non hanno lenito il dolore ma attenuato l’ira e l’odio.
HO ODIATO con tutte le mie forze l’orda selvaggia di Liverpool, quei lupi ubriachi che si sono gettati con furia sanguinaria sugli agnelli indifesi del maledetto settore Z, tutta gente tranquilla, estranea alle ben note risse del calcio, desiderosa solo di vivere qualche ora di svago. Ho odiato l’imbelle, impotente e arrogante polizia belga che, incapace di prevedere il pericolo costituito dai «reds», s’è disfatta nel caos ai primi incidenti, ha voltato vilmente le spalle agli «animals» scatenati, è risultata pressocché nulla nell'opera di soccorso, ha esibito una grinta da operetta nel tentativo di riprendere il presidio del campo, ha dovuto chiedere infine ai calciatori della Juve e del Liverpool l’agghiacciante esibizione dell’Heysel per evitare una più grande carneficina. Voglio dire a chi non c’era e tuttavia ha straparlato, ha sentenziato, ha criticato sciorinando accenti demagogici e imbecilli: tacete, voi che non c’eravate, voi che non avete vissuto quelle ore di paura, voi che non potevate capire quale rabbia omicida stesse montando fra le migliaia di italiani confinati nella curva juventina, gente che avrebbe certo spazzato via dall'Heysel, dai suoi dintorni, i «reds» vigliacchi, aggiungendo strage a strage. E invece, grazie a Platini e a Grobbelaar, a Cabrini e a Wark, a tutti quei ragazzi che sono scesi sul tappeto sconsacrato dell'Heysel, la paura s’è spenta, altre ansie - magari incoscienti - si sono accese, e nuovi sorrisi - ancorché folli - sono tornati sui volti della gente. E alla fine, quasi per miracolo, come esorcizzati dallo stesso nostro odio, gli «animals» sono scomparsi. Mentre la Juve improvvisava un macabro trionfo essi venivano rigettati verso la Manica, verso una sicurezza che forse non meritavano e che comunque oggi ci fa sentire più sereni. Perché l’ira selvaggia ch’era anche in noi, l’odio ch’era pronto ad esplodere in gesti inconsulti hanno lasciato il posto al ragionamento. Non alla rassegnazione, ma all’umana compostezza che vuole preghiere per i morti e per i vivi, e respinge la vendetta anche se non è subito disposta al perdono.
NOI VOGLIAMO soprattutto capire, e quello che non possiamo cogliere dalla bestialità di quel branco di liverpudiani ubriachi dobbiamo cercarlo in noi stessi. Quelli sono criminali incalliti, tristemente noti in Inghilterra e in Europa; noi siamo vittime non del tutto innocenti, colpevoli comunque di avere accettato il confronto con fanatici notori, illusi di poter chiudere una sfida con novanta minuti di gioco. Le vittime innocenti sono soltanto quelle che da qualche giorno giacciono sotto terra dove le ha accompagnate lo strazio dei famigliari e degli amici. Noi abbiamo ancora qualcosa da dire, qualche esame di coscienza da fare, qualche angolo dell'anima da ripulire dalle scorie lasciate dalla lunga abitudine alla violenza, dall’illusoria speranza in un calcio migliore, illusoria perché lo abbiamo veduto crescere nell’infamia di un tifo assurdo, volgare, demente, dato sempre più a una ritualità funesta, fatta di teschi e di insegne terribili, di slogan criminali, di invettive disumane, di cerimonie al limite della follìa, le stesse che fanno imbrattare i muri con frasi che recano scherno ai morti dell’Heysel ed esaltano oggi Bruxelles contro quei fanatici juventini che ieri esaltavano Superga. Per questo, fermi in una calma mortale, vorremmo che all’improvviso sparissero dai nostri stadi le insegne di un tifo folle, paranoico; e non ci accontentiamo di sognarlo: lo pretendiamo da quei dirigenti che, negli anni, come apprendisti stregoni, hanno lasciato che la follia si scatenasse fino a risultare impotenti al momento di imbrigliarla, soggiogarla. Lo pretendiamo dalla Federazione, dalla Lega, dalle società che, tutte, oggi, devono adottare i morti di Bruxelles e rendergli omaggio mutando d’acchito la tendenza allo scontro fisico dei rispettivi tifosi, riconducendoli al rispetto se non all'amore per questo sport che sentiamo profondamente nostro non per l’agonismo o l’aspra rivalità che produce, ma per il senso di felicità che sapeva trasmettere insieme all’ammirazione e a quella sorta di innocente idolatria per i campioni che ci faceva essere tutti ragazzi anche se coi capelli imbiancati dal tempo.
ESAMINANDO noi stessi, finiremo per essere utili anche agli altri, in particolare a quegli inglesi che oggi sono sopraffatti dalla vergogna e credono di poter curare il morbo che dilania la loro vita sportiva serrandosi in un angolo, negandosi l’Europa e le antiche sfide che hanno fatto grande il calcio. Certo, comprendiamo lo spirito che ha partorito l’autopunizione della federcalcio inglese; ma non crediamo sia giusto gioire come di una vendetta subita e ottenuta. Avere negato al calcio inglese il contatto con l’altra Europa è come aver assegnato a quei fanatici una medaglia. Il calcio, che si è dato leggi secondo le quali si è ben governato in circa un secolo di vita, attraverso queste leggi doveva punire soltanto il Liverpool, oggettivamente responsabile dei suoi «animals»; il ritiro del «passaporto» all’Everton e agli altri club riporta indietro non solo tutta l’Europa calcistica ma anche quel grande paese sognato che doveva sorgere sull’abbattimento dei confini e dei nazionalismi e crescere nell’idea partorita dalla pace conquistata nel 1945. Vedete quanto può portare lontano una partita di calcio: non per mero idealismo ma per amore di una sicura fratellanza fra i popoli. Le lacrime dei ragazzi di Fagan nella cattedrale di Liverpool sono vere come quelle che noi abbiamo versato per le vittime dell’Heysel.
MI SENTO anche di respingere - a mente fredda - il ruolo di giudice assegnatosi dall’UEFA. [...] Mentre il signor Millichip, presidente della federazione inglese, comunicava la dura decisione di ritirare le proprie squadre dalla competizioni europee, l’intero gruppo dirigente dell'UEFA doveva dimettersi, imitato dalle autorità calcistiche e dai responsabili dell’ordine pubblico del Belgio. Tutti costoro - ripeto - sono più colpevoli della strage di Bruxelles di quanto lo sia il calcio inglese.
IN ITALIA [...] piuttosto che rivolgersi ai veri colpevoli della strage pretendendo giustizia per i poveri morti di una triste giornata di maggio, si è preferito infierire sul trofeo che essi stessi erano andati a cogliere nello stadio di Bruxelles. Resti pure, quella Coppa dei Campioni, tra i trofei della Juventus: certo non le darà nuova gloria o felicità, speriamo invece che le dia l’energia, la determinazione sportiva, di riconquistarla fra un anno: solo una Coppa così, più vera, potrà essere dedicata al piccolo Andrea Casula e agli altri trentuno italiani che non sono più tornati dallo stadio di Bruxelles. Oggi piangiamo per loro, ma non rinneghiamo la passione per il calcio e sognamo il giorno in cui potremo tornare a sorridere.
Italo Cucci