«Ho pianificato tutto», raccontava seduto in un locale di Malta a sorseggiare uno spritz (vino bianco e soda), «non lo dirò a nessuno, prenderò un aereo per una cittadina spagnola in mezzo al nulla, troverò un bar, ordinerò una bottiglia di cognac Louis XIII, la scolerò tutta e così sia». Non ce l’ha fatta, George Best. Voleva andarsene accanto all'etichetta più amata, lui che delle etichette s’è fatto beffe per la vita. Vissuta, quella sì, come voleva e non solo, come tanti, troppi, come poteva. Colpa imperdonabile per gli estremisti dell’etichetta e delle etichette, in campo e fuori. E forse anche per se stesso, il suo peggior nemico. Quella tragica vacanza maltese fu il vero capolinea per “Beastie”.
Era l’estate del 2003, un anno dopo il trapianto di fegato. George aveva ricominciato a bere (e a concedersi scappatelle) e la seconda moglie Alex Pursey (sposata nel 1995) l’aveva piantato, stavolta per sempre. E allora tanto valeva ammetterlo: «Non ho mai voluto smettere. E ne ho abbastanza di tutti questi buoni consigli su come vivrei meglio se ne facessi a meno. Non voglio farne a meno. Non ne sono capace. È solo per loro che ci provo, per Alex (da cui divorziò nel 2004) e Calum (il figlio avuto nel 1981 dalla prima moglie, Angela ‘’Angie” MacDonald James, sposata nel ‘78)». Da sobrio era un insopportabile, tremolante relitto umano ostaggio dell’autocommiserazione come unico meccanismo di sopravvivenza. Dopo qualche bicchiere tornava quel che era: affascinante, spiritoso, di un ottimismo perfino commovente.
L’ex ragazzo di Belfast est (Irlanda del Nord), dove nacque il 22 maggio 1946, era un figlio della working class di Cregagh, periferia a maggioranza protestante e lealista. Il padre Dickie, oggi 87 enne senza più lacrime cui l’alcol ha portato via anche la moglie, lavorava ai docks, come tornitore al cantiere navale. La madre Ann - che George raggiungerà venerdì 2 dicembre al cimitero di Roselawn al termine del più grande funerale del dopo-Lady D (mezzo milione di “fedeli”) - come operaia in un tabacchificio. Il rampollo che ne aveva ereditato gli splendidi occhi blu avrebbe fatto il tipografo se a 15 anni non lo avesse visto giocare Bob Bishop, mittente dello storico telegramma inviato all’amico Matt Busby, manager del Manchester United: «I have found a genius». Ho scovato un genio. Che il 6 agosto 1961 arriva in traghetto a Liverpool, e di lì in treno a Manchester. Resiste un giorno secondo la leggenda, comunque pochi secondo i resoconti più verosimili. Poi gli prende la nostalgia e torna a casa. Il padre telefona a Busby, cui non par vero di concedere al pargolo una seconda chance. Il resto è storia: 2 titoli inglesi, la Coppa dei Campioni e il Pallone d’oro ‘68.
A 22 anni aveva tutto. Nei successivi 37 dicono abbia scelto di buttarlo via. Sarà anche vero, ma a modo suo: «È difficile scegliere se fare l’amore con Miss Mondo (ne ha avute due) o segnare al Liverpool. Per fortuna non ho dovuto farlo». Rest in peace, George. And thanks for the memories.
Christian Giordano, dall'archivio del Guerin Sportivo