I cinquant'anni compiuti da Roberto Baggio fanno più impressione dei cinquant'anni di altri ex fuoriclasse, perché lui nell'immaginario collettivo è sempre e sempre sarà un calciatore. Tolti i due anni e mezzo (dall'agosto 2010 al gennaio 2013) da presidente del settore tecnico della Federazione, peraltro isolato e non ascoltato, dopo il suo ritiro dal campo avvenuto nel 2004 Baggio è nella sostanza uscito dal calcio. Qualche mezza proposta per allenare (Inter, Bologna) mai diventata intera, molte offerte di televisioni affamate di un personaggi autorevoli e condivisi come lui, qualche viaggio da testimonial di se stesso. Insomma niente, se paragonato a ciò che è stato Baggio. Che nelle sue stagioni migliori (le ultime due alla Fiorentina e le prime tre alla Juventus, in particolare la terza), quando gli infortuni gli hanno dato tregua, è stato probabilmente il miglior calciatore italiano dell'era televisiva (tutti parliamo di Meazza e Piola per sentito dire), l'unico dei quattro italiani vincitori del pallone d'Oro (gli altri sono Rivera 1969, Paolo Rossi 1982 e Cannavaro 2006) ad essere stato celebrato senza il doping mediatico di una Coppa dei Campioni o di un Mondiale. Se ne può discutere, mentre non è discutibile che Baggio fra i grandi campioni italiani sia l'unico ad essere amato (o almeno non detestato) da tutti, trasversalmente rispetto all'appartenenza tifosa. Non per le tante maglie indossate (oltre a quelle viola e bianconera anche quelle di Vicenza, Milan, Bologna, Inter e Brescia) lasciando in ogni contesto un buon ricordo, ma per il fatto che Baggio non è mai stato identificato con la maglia che indossava, tranne forse con quella della Nazionale. Il fatto di non essere un leader, né a livello verbale né di spogliatoio, nel senso di maschio Alpha che i giornalisti danno al termine, lo ha penalizzato in certe fasi della sua carriera ma ha anche impedito di farlo considerare un 'nemico'.