Nella vita ci sono poche certezze, ma una è assoluta: il fallimento europeo del Manchester City, dopo l'uscita di scena negli ottavi di Champions League con il Monaco, sarà messo totalmente in conto a Pep Guardiola non solo da tifosi e giornalisti beceri, ma anche dallo sceicco Mansour e dai suoi collaboratori calcistici, primo fra tutti Al Mubarak che del City è presidente. Un fallimento a livello di risultati (il vituperato Pellegrini era arrivato alle semifinali ed ha molto da recriminare sulla qualificazione del Real Madrid di Ancelotti, arrivata con l'autogol di Fernando), non in assoluto perché non è obbligatorio vincere un trofeo che tutte le corazzate vogliono, ma in proporzione agli investimenti: nella sola era Guardiola, iniziata l'estate scorsa, il calciomercato è costato 200 milioni di soli cartellini, senza contare gli ingaggi a livelli di impazzimento per giocatori medi come sono, senza offesa, i vari Stones, Nolito e Claudio Bravo (ma è meglio di Hart?), ma anche per giocatori con un grande presente e futuro come Sané e gli adesso gravemente rotti Gundogan e Gabriel Jesus. Tutto questo per arrivare nettamente alle spalle del Chelsea in Premier League ed essere uscito dall'Europa dopo imbarcate come quella presa al Camp Nou.
Ma venendo alla stretta attualità, bisogna dire che quella con il Monaco è una sconfitta del Guardiola deteriore, quello che non si limita a far giocare bene le sue squadre ma vuole mettere il suo timbro anche quando ci sarebbe soltanto una situazione da gestire: da qui nasce un solo centrocampista che recuperi palloni, Fernandinho, una prima punta non esattamente fisica come Aguero e quattro geni in libertà che in un certo tipo di partita (quello aggressivo voluto da Jardim, privo oltretutto di Falcao) perdono molto del loro potenziale. Stiamo parlando non di un allenatore che viene dalla provincia, di un Gasperini che debba dimostrare sempre qualcosa, ma di uno che in sette partecipazioni alla Champions (quattro al Bartcellona, tre al Bayern Monaco) ha sempre come minimo raggiunto le semifinali.
Il numero di moduli usati quest'anno da Guardiola (ne abbiamo contati almeno 5, solo in Premier League e Champions) non significa che non abbia le idee chiare ma forse soltanto che si è annoiato di se stesso. Va detto che il 4-1-4-1, per quanto discutibile, non è stata un'improvvisazione ma una scelta che in questa stagione ha quasi sempre portato avanti in Europa, con alterni risultati: così ha straperso a Barcellona, così ha stravinto contro la sua ex squadra a Manchester, con sempre il solo Fernandinho a correre per gli altri. Ma a prescindere dagli schemi è chiaro che l'allenatore-mestierante, anche di lusso, si consuma meno dell'allenatore-guru tipo Guardiola, Mourinho o, caso estremo, Sacchi. I tempi sono maturi per una nazionale.