La Cina di Marcello Lippi è praticamente fuori dal Mondiale, dopo il pareggio con la Siria che lascia ancora lontanissimo (6 punti e con sole 2 partite ancora da giocare) quel terzo posto nel gruppo A asiatico che darebbe almeno la possibilità dello spareggio con la terza del gruppo B. Va detto che l'allenatore campione del mondo 2006 sul piano personale non ha fatto malissimo, visto che da quando ha preso in mano la nazionale del paese più popoloso del pianeta, lo scorso novembre, nelle partite di qualificazione ha pareggiato 0-0 con il Qatar, ha battuto 1-0 la Corea del Sud, ha perso 1-0 in Iran (ci sta, perché gli iraniani guidati da Queiroz sono alla posizione 30 nel ranking FIFA, contro la 82 cinese) e con la Siria ha subito il gol del 2-2 al 93'. I 18 milioni di euro l'anno che gli vengono dati erano però fin dall'inizio per un piano a lungo termine (per quanto il contratto scada nel 2019), come sempre si dice quando ci sono da giustificare i fallimenti dei cinesi. Sì, perché non entrare in un Mondiale a 32 squadre è per un paese come la Cina, che da anni sta investendo tantissimo sul calcio (e non parliamo delle proprietà cinesi di Inter, Milan e altri club europei), un colossale fallimento. Insomma, Lippi avrà da lavorare perché da quando esiste il ranking FIFA, quindi da 24 anni, la posizione media della Cina è stata la numero 72. Di più: la Cina soltanto una volta (nel 2002, forse la più grande impresa fra le tante di Bora Milutinovic) è riuscita a qualificarsi per la fase finale di un Mondiale, offrendo poi di sé un'immagine non memorabile (0 gol fatti, 9 subiti). Un movimento e una cultura non si inventano, ma soprattutto non si comprano. Riempire il campionato di allenatori ben oltre il capolinea (ultimo della lista Capello, nello Jiangsu di Suning, mentre è di poco fa la notizia dell'esonero di Eriksson dallo Shenzen, che solo sei mesi fa aveva salutato Seedorf) e di mezzi giocatori strapagati non si è finora rivelata una strategia vincente, se il fine ultimo è quello di avere una grande nazionale. Diverso è se si vuole rendere il calcio parte della quotidianità dei cinesi, strumento di controllo sociale più soft ma anche molto più incisivo dei carri armati.