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La proprietà cinese dell'Inter è sotto accusa dei dei tifosi e, in maniera indiretta, dello stesso Spalletti per non avere fatto l'ultimo sforzo necessario per allestire una squadra da Champions League. Ma il vero problema è che i soldi, Skriniar a parte, sono stati spesi male...
I cinesi dell’Inter hanno il braccino corto? Questo fra le righe suggeriscono le varie conferenze stampa di Spalletti e le analisi che filtrano, per così dire, dagli uomini mercato nerazzurri Sabatini e Ausilio. A forza di ripeterlo, questo concetto è entrato nel senso e nel luogo comune. Vediamo quindi le cifre spese o impegnate, magari con pagamenti differiti di una parte delle somme, sul mercato.
Il 6 giugno del 2016 il gruppo Suning è diventato azionista di maggioranza dell’Inter, con il 68,55% delle quote: acquistando tutte quelle ancora in mano a Moratti e parte di quelle in mano a Thohir, rimasto presidente e tuttora con il 31,05%. In sostanza a Zhang, ma sarebbe meglio dire alla coppia Zhang-Thohir (l’indonesiano ha nella sostanza il diritto di veto su operazioni oltre un certo limite, sugli aumenti di capitale e sulla nomina degli amministratori), sono imputabili entrambi i mercati, estivo e di gennaio, della scorsa stagione ed entrambi i mercati di questa. Poco importa che in una prima fase l'uomo forte nerazzurro fosse Kia Joorabchian, a decidere erano comunque Zhang e Thohir.
Mercato 2016-17: fra estate e inverno spesi 158 milioni, ingaggi esclusi, e incassati 18. Mercato 2017-18, il primo con Walter Sabatini sopra a Piero Ausilio: spesi 81 milioni, incassati 69. A questi calcoli grezzi aggiungiamo i 20 milioni del riscatto obbligatorio di Gagliardini. Insomma, in un anno e mezzo l’Inter ha speso sul mercato 170 milioni più di quanti ne abbia incassati. Poca roba con le valutazioni di oggi, se si parla di giocatori che facciano la differenza in Champions League o anche che non la facciano, pensando ai 120 milioni spesi dal Barcellona per l’ex interista Coutinho. Tanto in rapporto al livello della serie A attuale: poi è solo in parte colpa di Zhang, nel senso di assenza di Zhang e in generale di sua mancanza di competenza calcistica (si veda lo Jiangsu), se sono stati spesi 40 milioni per João Mario, 30 per Gabigol e 20 per Dalbert, per citare tre giocatori che messi insieme oggi non valgono più di 15 milioni. Scontato il confronto con il Milan cinese, cinese almeno ufficialmente, che in una sola stagione di operatività ha speso 160 milioni più di quanto abbia incassato e ancora deve finire di pagare Kessié e Kalinic.
Si torna quindi al solito discorso sulle proprietà straniere. Non avendo alcun legame affettivo e nemmeno di convenienza personale, perché il calcio anche in perdita rimane un formidabile veicolo per pubbliche relazioni e pressioni politiche, gli Zhang giudicano un club come se avessero preso una fabbrica di piastrelle o, per stare nel loro campo, di elettrodomestici. I conti devono insomma tornare, ma il punto è che a nessun tifoso di cultura italiana importa che i conti tornino. Il lavaggio del cervello a colpi di articoli sul fair play finanziario (finto, come il PSG dimostra) e sulle prospettive dei mercati asiatici potrà emozionare giusto qualche ragioniere.
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