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La nazionale di casa, una delle peggiori nella storia del Mondiale, contro la Croazia ha quasi fatto il miracolo e lascia la manifestazione con la consapevolezza di avere fatto il massimo. Perché il calcio russo è ben lontano dall'essere fra i primi otto del pianeta...
Quando la nazionale di casa viene eliminata il Mondiale è quasi sempre ai titoli di coda, con tutta la malinconia del caso per il ritorno ad una quotidianità poco emozionante. La Russia 2018 non fa eccezione, ma merita un discorso a parte perché rispetto alle altre nazioni-nazionali ospitanti è quella che forse ha fatto di più in proporzione al proprio potenziale. Senza dimenticare che la sua uscita di scena ai quarti contro la Croazia è avvenuta ai rigori, contro una squadra di qualità nettamente superiore.
Nella storia della manifestazione quasi non si ricordano squadre sulla carta più deboli di quella messa bene insieme da Cherchesov: come previsioni della vigilia erano messe allo stesso modo soltanto gli Stati Uniti del 1994 (ottavi di finale, eliminati dal Brasile poi campione), Corea del Sud (semifinale con la Germania) e Giappone (ottavi con la Turchia) 2002, Sudafrica 2010 (eliminata già nel girone). Soltanto la squadra africana, che fallì di poco il passaggio del turno, poteva esere considerata peggio di quella russa come somma dei valori dei singoli. Di sicuro la Corea di Hiddink è andata un turno oltre, ma è anche vero che nel 2001 era la squadra numero 42 del ranking FIFA (la Russia è in zona 70), al di là degli arbitraggi contro l’Italia (ma non fu Moreno a svirgolare quel rinvio nel finale, bensì Panucci) e soprattutto la Spagna.
Il punto è questo: la Russia non ha goduto di alcun favore, fatta eccezione per il solito girone morbido riservato alle squadre di casa, dove comunque l’Egitto di Cuper e Salah si è suicidato. Merito del VAR? Probabile. Merito degli occhi del mondo pronti a vedere la mano di Putin ovunque? Possibile, anche se Putin è stato nell’ultimo mese quasi invisibile e la politicizzazione del Mondiale è avvenuta più per esultanze ingenue (mai russe, comunque) che per scelte politiche fatte a tavolino.
Se gli uomini con più mercato sono il giovane Golovin, il normale Dzagoev, il pessimo Smolov e l’invisibile (al Mondiale) Aleksey Miranchuk, si capisce la portata dell’impresa di Cherchesov, costretto a mettere al centro della difesa un trentanovenne come Ignashevich, a riciclare un cavallo pazzo come Dzyuba (che però quando ha voglia sembra una specie di Vieri) e a gestire il talento di Cheryshev, come al solito con un’autonomia di mezz’ora (diversamente giocherebbe ancora nel Real Madrid in cui è cresciuto), si capisce come i quarti siano stati un’impresa e l’approdo alle semifinali sarebbero stati un miracolo. In ogni caso la prova che il Mondiale non è l’indicatore scientifico del valore di un movimento, ma una festa del calcio in cui squadre con gli astri allineati nel modo giusto riescono ad entrare nella leggenda o per lo meno nella storia della cultura popolare. Questa Russia, nel suo piccolo, ci è riuscita e anche con onore.
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