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Il 19 gennaio 1991 la scomparsa del presidente-manager che aveva posto le basi della versione moderna del club giallorosso, vincendo tanto e guardando avanti: fino allo stadio di proprietà...
Dino Viola è l’uomo che ha inventato la Roma moderna, intesa come grande club e non come società che viva alla giornata, fra alti e bassi. Per questo in tanti, non solo i tifosi giallorossi, si ricordano bene della sua morte avvenuta il 19 gennaio del 1991, trenta anni fa, a Roma, nella clinica di Nostra Signora delle Mercede, dopo alcune settimane durissime in seguito ad un malore durante le vacanze di Natale a Cortina.
Dal 1979 fino alla fine l’ingegnere fu il quindicesimo presidente nella storia della Roma, ma soprattutto fu un proprietario-manager a tempo pieno, attento ad ogni aspetto dell’azienda calcio ma al tempo stesso tifosissimo, ed è bene ricordarlo in un’epoca in cui ci si esalta per i fondi di investimento stranieri. Fra l’altro le idee di Viola erano moderne e non si contano le sue interviste degli anni Ottanta in cui sosteneva per la Roma la necessità di dotarsi di un suo stadio di proprietà, per competere in modo stabile con la Juventus e le altre. Pur tifoso, poi, era abbastanza lucido da non innamorarsi delle bandiere: quando riteneva esaurito un ciclo le ammainava. Fu così con Falcão, dopo cinque stagioni di amore, in verità con un brutto finale anche dal punto di vista umano, fu così con Liedholm in due diverse occasioni, fu così con Di Bartolomei e Pruzzo…
Facile ricordare lo storico scudetto 1982-83, gli altri sfiorati (quello del gol annullato a Turone, due stagioni prima, ma soprattutto quello 1985-86 con Eriksson in panchina e la sconfitta all’Olimpico con il Lecce), le quattro Coppe Italia, i tanti giocatori dati alla Nazionale ed un’attenzione sempre speciale al territorio visto che nel 1989 fu lui personalmente a condurre la trattativa con la Lodigiani per il cartellino del tredicenne Francesco Totti. Viola era attentissimo anche al mercato estero e fu a suo modo un innovatore, nel 1983 quando forzò regole antiquate acquistando Toninho Cerezo e sfidando la FIGC (va detto che era senatore della Democrazia Cristiana), nel 1984 quando portò in Italia un allenatore di scuola straniera come Eriksson, non il solito straniero italianizzato, e in latre occasioni. Si sentiva, o provava ad essere, il leader di una sorta di opposizione calcistica al mondo Agnelli-Juventus, idea che per qualche anno avrebbe cullato anche Franco Sensi.
Per Viola luci e ombre, come per tutti, e l’ombra più ombra rimane il caso Vautrot, l’arbitro di Roma-Dundee corrotto con 100 milioni di lire, anche se il ricordo più amaro è la sconfitta ai rigori in Coppa dei Campioni, sempre nel 1984, contro il Liverpool. Lì finì anche una certa idea della Roma e nacque un Viola forse meno entusiasta e più attento ai bilanci. Che però nell’era del monostraniero, ma anche dei due e poi tre stranieri aveva e avrebbe portato in giallorosso campioni straordinari e ottima classe media: da Falcão ad Aldair, passando per Prohaska, Cerezo, Boniek, Bergreen, Völler, Andrade, Renato, Berthold… Dopo la sua morte per qualche mese la Roma fu presieduta dalla moglie Flora, prima del biennio di Ciarrapico e dell’inizio dell’era Sensi, che per rimanere ad alto livello avrebbe dovuto spendere molti più soldi di Viola. Cosa rimarrà di Dino Viola? L'idea di una Roma dei romanisti, quando non proprio dei romani, una Roma per tifosi ma gestita non da tifosi. Un'idea che magari tornerà.
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