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Addio ad un calciatore e ad un allenatore che ha saputo trasmettere un'immagine di forza fino alla fine. Amatissimo in un'Italia che imparò a conoscerlo 31 anni fa a Bari...
Negli ultimi anni si è scritto e parlato di Sinisa Mihajlovic, nel 90% dei casi, come di un caso umano, per strappare qualche lacrima facile. Invece l’allenatore e soprattutto grande giocatore serbo è stato un uomo che si è ammalato e che è morto a nemmeno 54 anni dopo avere affrontato coraggiosamente i problemi, senza cercare pietà e facce di circostanza. Per questo ci piace ricordarlo al suo meglio, al suo inizio ad alto livello, quando tutta Europa lo scoprì con la maglia della Stella Rossa Belgrado, la squadra per cui firmò nell’estate 1990, con la Jugoslavia sull’orlo della guerra civile.
Il ventunenne Mihajlovic all’epoca non era un centrale difensivo che costruisse gioco dalla sua mattonella, cioè la versione di Mihajlovic che avrebbe avuto successo in Italia dopo il cattivo inizio alla Roma, ma un esterno sinistro che faceva cross perfetti. Alla Stella Rossa lo volle Ljupko Petrovic, che lo aveva allenato anche al Vojvodina e che aspettò un po’ prima di lanciarlo nello squadrone di Savicevic, Jugovic, Prosinecki, Belodedici, Pancev… A Petrovic il Mihajlovic laterale non dispiaceva, ma riteneva che la sua intensità nei contrasti ed il suo formidabile tiro sarebbero stati più utili al centro, e così gli cambiò ruolo.
La sua prima grande notte a livello internazionale fu nella semifinale di andata di Coppa dei Campioni, contro il Bayern Monaco: Mihajlovic disputò una partita enorme e la Stella Rossa con Pancev e Savicevic ribaltò lo svantaggio iniziale. Nel ritorno al Marakanà 1-0 con gol di Mihajlovic su punizione, poi 2-1 per il Bayern e pochi secondi prima dei supplementari autogol di Augenthaler con grave colpa di Aumann su un cross senza pretese di Mihajlovic. Qualificazione quindi alla finale della penultima edizione della Coppa dei Campioni, l'ultima ad essere disputata tutta con partite ad eliminazione diretta.
Petrovic ovviamente puntò su di lui anche nella finale di Bari contro l’Olympique Marsiglia. Nonostante quel gruppo di talenti incredibili (centrocampo Prosinecki-Jugovic-Mihajlovic-Savicevic: si può pensarne uno più forte?) la Stella Rossa giocò in maniera rinunciataria, come spesso faceva con le grandi squadre occidentali, puntando ad infilare i francesi in contropiede. La tattica fu però la stessa anche dalla parte di Goethals e così Stella Rossa-Marsiglia è rimasta nella storia come una delle finali di Coppa Campioni più brutte mai viste. Per Lanese un arbitraggio molto facile, visto che in area non si entrava letteralmente mai.
Mihajlovic se la giocò comunque bene, vincendo quasi tutti i contrasti con Germain e Fournier, e segnò anche il quarto rigore della serie finale: capelli lunghi e ricci, maglia numero 8 e sinistro potentissimo alla sinistra di Olmeta. Poi Pancev mise dentro quello della coppa, un trofeo che significava tanto per una nazione giunta al capolinea della sua storia. Un momento che Mihajlovic, padre serbo e madre croata, comprese meglio di altri ed è anche per questo che le sue posizioni sulla guerra in Jugoslavia si sono sempre discostate sia dal mainstream occidentale dell’epoca (i serbi cattivi, in estrema sintesi), e tutto sommato anche di adesso, sia da un nazionalismo becero che quello stato, pur finto, aveva tenuto a bada per decenni. La carriera di Mihajlovic, che si sarebbe italianizzato per il matrimonio con Arianna e per i figli ma mai per la mentalità (ed è stata la sua forza), sarebbe proseguita per tre decenni, ma in quel ragazzo jugoslavo c’era già tutta la storia. Oltre che la Storia. La morte non l'ha cancellata.
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