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Sven Goran Eriksson

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Sven Goran Eriksson
nella foto: il tecnico svedese Sven Goran Eriksson durante un allenamento con la Lazio© LaPresse

L'Italia di Eriksson

Addio a un grande uomo di calcio, che nel 1984 di fatto riaprì le frontiere della Serie A per gli allenatori stranieri. Che a parte lui e pochi altri non avrebbero però mai avuto troppa fortuna... 

26 agosto

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Sven Goran Eriksson era e rimarrà per sempre un cittadino del mondo, un mondo che ovunque gli ha dato successo e affetto: dalla sua Svezia, dove iniziò come vice dell’amico Tord Grip per affermarsi poi come guida del clamoroso Goteborg (Hysen, Stromberg, Corneliusson, Torbjorn Nillson) vincitore della Coppa UEFA 1981-82 in finale sull’Amburgo di Happel, alla Cina, dal Portogallo all’Inghilterra a tanti altri paesi. Un percorso lunghissimo che anche il meno informato degli appassionati di calcio conosce, in cui è mancata la grandissima vittoria come un Mondiale o anche soltanto una Champions League, ma non la stima di colleghi e pubblico.

Un percorso in cui l’Italia è stata decisiva e non soltanto perché fra Roma, Fiorentina, Sampdoria e Lazio ha frequentato la Serie A per ben 14 stagioni. Con lo scudetto 2000 vinto con la Lazio, altri due sfiorati (con la Lazio l’anno prima e soprattutto con la Roma 1985-86, per sempre la stagione di Roma-Lecce), 4 edizioni della Coppa Italia (2 con la Lazio, una con Roma e Sampdoria), 2 della Supercoppa italiana con la Lazio, una della Supercoppa europea con la Lazio e l’ultima edizione della Coppa delle Coppe sempre con la Lazio. Eriksson ha lasciato tante lezioni non soltanto tattiche, raccolte da allievi bravi (su tutti Roberto Mancini) e meno bravi, ed è stato uno dei pochi allenatori a non aver diviso la critica in giochisti e risultatisti. Interessante è che Eriksson sia stato uno dei pochi allenatori stranieri capaci di vincere lo scudetto. Dal 1980, anno della riapertura delle frontiere per i calciatori (ma non per gli allenatori, se non italianizzandosi a Coverciano), ci sono riusciti soltanto Liedholm, Boskov, Mourinho e appunto Eriksson. Tutti tecnici per certi versi più italiani degli italiani. Ma come arrivò Eriksson in Italia? E perché il suo ingaggio fu così importante?

Tutto ebbe inizio nel marzo del 1983, quando la Roma si avviava a vincere il suo secondo scudetto e affrontò il Benfica nei quarti di finale di Coppa UEFA, in quello che venne presentato come una sorta di derby fra profeti del gioco a zona. Gioco a zona: espressione che a ripensarci fa tenerezza, ma che ai tempi era al centro di battaglia giornalistiche di religione e che, sotto mentite spoglie, esistono ancora oggi. Alle 15 di mercoledì 2 marzo 1983 (cosa diremmo oggi di un quarto di finale europeo gioocato alle tre del pomeriggio?), davanti al presidente della Repubblica (Pertini nel 1982 era stato folgorato dal calcio), a Gianni Agnelli e ad una quantità di personaggi assurda per l’andata di un quarto di finale di Coppa UEFA il Benfica di Eriksson, ma anche di Carlos Manuel e Chalana, diede una lezione di calcio notevolissima alla migliore squadra d’Italia, pur trovando i due gol in maniera un po’ casuale (Filipovic che sfruttò un pasticcio di Nela e poi autorete di Ancelotti), una lezione di cui Dino Viola si sarebbe ricordato quando l’anno dopo senza un vero perché Liedholm decise di tornare al Milan, che era il Milan di Farina, ben prima del dramma di Roma-Liverpool.

Il problema era che che le frontiere per gli allenatori stranieri erano ancorta chiuse, e nessuno premeva per riaprirle, anche per una questione di spocchia nazionalistica: puoi accettare di avere giocatori scarsi, ma non di capire poco di calcio. E così ci si inventò l’escamotage del direttore tecnico, con in panchina anche un allenatore italiano. Sulle prime si pensò allo zonista Catuzzi, che però si rifiutò di fare il prestanome. E poi in mezzo a mille polemiche, con gli eterni discorsi del genere “Quelli italiani sono i migliori allenatori del mondo”, dalla Sambenedettese arrivò Roberto Clagluna, in precedenza una vita alla Lazio. Viola andò avanti per la sua strada e di fatto Eriksson riaprì le porte dell’Italia agli allenatori stranieri senza una formazione italiana, porte che erano state chiuse venti anni prima. E dopo una prima stagione passata in tribuna, dando a Clagluna indicazioni che non sempre (anzi) venivano raccolte, lo schema venne ripetuto nelle due successive con Sormani, prima che il regolamento cambiasse. A non essere cambiata, ancora nel 2024, è una certa mentalità. Ma Eriksson volava alto, e adesso ancora di più. 

stefano@indiscreto.net

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